“Il MacGuffin è un motore virtuale e pretestuoso dell’intrigo, un qualcosa che per i personaggi del film ha un’importanza cruciale, attorno al quale si crea enfasi e si svolge l’azione, ma che non possiede un vero significato per lo spettatore.  … Ciò che caratterizza il MacGuffin e lo rende distinguibile da qualsiasi altro espediente narrativo è che non ha alcuna importanza la natura dell’oggetto, bensì l’effetto che esso provoca sui personaggi.” (da Wikipedia)

Quando ho letto questa definizione di MacGuffin, un termine coniato nientemeno che da Alfred Hitchcock, mi è subito venuto in mente il Falcone Maltese! Non lo si vede mai, ma tutto il film gli gira intorno. Non si sa nemmeno se esista o no, forse è fatto… (completate la frase prima di proseguire).

Alcuni esempi di MacGuffin classici.

Rosebud (Rosabella nella versione italiana) è l’ultima parola che pronuncia prima di spirare il tycoon Foster Kane (Orson Welles, protagonista e regista) in “Quarto Potere” (Citizen Kane, 1941). L’intero film è basato sulla ricerca di un giornalista sul significato di questa parola: una donna? o cos’altro? Forse l’unico elemento che possa spiegare una intera vita spesa sempre sopra le righe e finita in totale solitudine, materiale ed esistenziale, nel lugubre ritiro di un castello lussuoso ma deserto e isolato come il suo proprietario.
Solo nell’ultima sequenza, quando una quantità incalcolabile di ciarpame – accumulato senza alcun discernimento insieme a pezzi di grande valore – viene dato alle fiamme, lo spettatore scopre che Rosebud è lo slittino, compagno degli spensierati giochi di ragazzo di Kane. Il rimpianto di una vita più semplice e, chissà, forse più felice e appagante.

rosebud

La statua de “Il mistero del falco” (The Maltese Falcon, 1930). La trama – complicata e a tratti inverosimile, tratta da un romanzo di Dashiell Hammett – non è in fondo importante, né lo è la statuetta in quanto tale, ma piuttosto la smania quasi esistenziale con la quale i vari personaggi ne vanno in cerca. Non per nulla le battute finali, ormai celeberrime, lo definiscono “”the stuff that dreams are made of”, la materia di cui son fatti i sogni.
Un paio di curiosità. La statuetta del falco usato nella pellicola era stata realizzata in due copie, e negli anni ha destato molto interesse nei collezionisti, raggiungendo cifre di tutto rispetto. Ma – e qui sta il bello – in realtà nel film non la si vede mai. Altro interessante dettaglio: in questa sua prima regia, John Huston scelse il padre, Walter Huston, noto attore di teatro, per il breve ruolo del capitano Jacobi, che consegna a Spade l’involto con il falso falcone prima di morire.

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La busta con i 40.000 dollari in Psycho (1960), il capolavoro di Hitchcock. Il film parte con una impiegata, Janet Leigh, che ruba i soldi di un cliente e fugge. Il denaro è in una banale busta da lettere, che viene più volte inquadrata come fosse il fulcro della storia. Come ben si sa, però, il plot si dipana in modo del tutto inaspettato, e la busta coi soldi si rivela essere un trucco narrativo per mettere in moto la vicenda.
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Le lettere di transito in Casablanca (di Michael Curtiz, 1942). Ancora Humphrey Bogart e Peter Lorre, e ancora un classico della storia del cinema. Le lettere di transito sono l’unico modo di lasciare Casablanca, all’epoca parte della cosiddetta Francia non occupata, sotto il controllo del governo filo-nazista di Vichy.
Tutti conosciamo la trama e il memorabile finale (vedi Battute finali in questo blog) genialmente ripreso, anzi, consciamente copiato da Woody Allen in “Provaci ancora Sam”, e sappiamo che le famose lettere di transito non erano che un espediente narrativo per raccontarci una storia d’amore e di patriottismo.
Peccato (ma in fondo, non è importante) che le famose due “lettere di transito” che dovrebbero consentire ai latori di lasciare il territorio francese siano firmate da Charles de Gaulle. Dato che Vichy aveva condannato De Gaulle per alto tradimento in contumacia il 2 agosto 1940, un documento con la sua firma non avrebbe avuto il minimo valore in quel contesto, men che meno il potere di far fuggire un famoso dissidente politico come Victor Laszlo (Paul Henreid).
D’altro canto, il valore delle lettere (una specie di Santo Graal per tutti coloro che vivono a Casablanca in attesa di espatriare) non viene minimamente messo in dubbio da nessuno.

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La valigetta in Pulp Fiction (di Quentin Tarantino, 1994). Nessuno sa cosa ci sia nella famosa valigetta, che tanti morti lascia sul suo percorso. Si vede solo la faccia stupita di chi la apre, irradiato dalla misteriosa luminescenza del contenuto (espediente ottenuto con una lampadina arancione al suo interno).
Roger Avary, co-sceneggiatore insieme al regista Quentin Tarantino, dichiarò che all’inizio si era pensato ai diamanti, poi a soldi o a cocaina pura, ma ogni soluzione sembrava scontata, fino a che si decise di lasciare il tutto nel mistero. Un MacGuffin da manuale.

valigetta

I cinquemila dollari ne I Blues Brothers (di John Landis, 1980), sono quelli che servono a evitare che l’orfanotrofio dove Jack e Elwood (appunto i Blues Brothers) sono cresciuti venga chiuso per non aver pagato tasse arretrate alla contea (una curosità: l’impiegato dell’ufficio dove finalmente i due fratelli riescono a pagare le famose tasse è nientemeno che Steven Spielberg, vedi la foto sotto).
Naturalmente è una scusa per dare l’avvio alla vicenda, di cui è superfluo riepilogare la trama: uno scoppiettio continuo di trovate assurde, gag, irresistibili buffonerie, ospiti illustri, e tanta ottima musica.
Vi rimando alle “Scene famose” della sezione Cinema per “Le scuse di Jack”, una delle tante famose sequenze di questo irresistibile film.