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Questa bellissima pellicola di Steven Spielberg del 1985 è uno di quelli che io chiamo “i misteri degli Oscar”: ben dieci nomination nel 1986, e nemmeno una statuetta. Vero è che dovette competere con “La mia Africa”, ma l’Oscar come migliore attrice protagonista a Geraldine Page per un dimenticabile (e dimenticato) film come “In viaggio verso Bountiful”, paragonato alla interpretazione di una Whoopi Goldberg in stato di grazia… che dire. Comunque, al di là di queste stranezze dell’Academy, “The Color Purple” rimane un film che si fa perdonare per virtù di stile alcuni passi falsi.

I temi trattati sono tanti, ma è soprattutto una storia di donne, e in tutto il film l’universo femminile, le sue forze e le sue debolezze, predominano. Ambientato in Georgia nei primi del novecento, la protagonista Celie è nera, ed è donna, in una società dove queste rappresentano autentiche stimmate. Ancora quasi una bambina, Celie devo subire la violenza del padre (anzi, di quello che lei crede essere il padre); le vengono strappati, e dati in adozione ancora neonati, i due figli avuti da quegli stupri; viene data in moglie ad un uomo violento (un bravissimo Danny Glover) che la picchia e la sfrutta senza pietà.

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Unica luce di una esistenza così misera, è l’amore incondizionato della sorella minore Nettie, che però la lascia presto per sfuggire allo stesso destino, e parte per una missione in Africa insieme alla famiglia del pastore protestante che ha adottato i figli di Celie (una di quelle improbabili coincidenze che occorre perdonare…).

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La povera Celie rimane completamente sola, ma anche in quel deserto affettivo e spirituale trova il modo di sopravvivere, e – meccanismo assai comune in situazioni di forti abusi – si convince che dopotutto è giusto così, che essere picchiata, umiliata, trattata come un oggetto, è la normalità. Ribellarsi non è nemmeno pensabile: per poterlo fare le ci vorrebbero una consapevolezza, un amore e una stima per se stessa che non ha mai avuto e, sembra, non avrà mai.

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Eppure, la salvezza arriva. E non può che arrivare da altre donne, che a diverso titolo entrano nella sua vita: alcune fiere e indipendenti, che riescono a dominare l’ambiente maschilista nel quale vivono, come la cantante di blues Shug, che per prima le apre gli occhi su se stessa e sulla vita (“Oh, miss Celie” le dice Shug, quando scopre che per lei il sesso non è altro che lo sfogo corporale degli uomini che ne hanno abusato “Sei ancora come una vergine.”)

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Altre, come Sofia (una sorprendente Ophra Winfrey), che da battagliera e orgogliosa che era viene spezzata nel corpo e nello spirito, ma ha la forza di riprendersi e di tornare a vivere.

6A334232-ED4A-42D2-8316-2A7E1950B875.jpegInfine, la riunione con l’amata sorella Nettie, che non aveva smesso di scriverle, anche se Celie lo scopre solo molto tardi perché il marito-padrone le aveva nascosto le lettere per più di vent’anni.

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Il finale è, nella sua perfezione iconografica, la parte che meno mi ha convinto. Intendiamoci, commovente, lirico, ma proprio per questo troppo consolatorio, troppo “happy ending”.
Celie viene a sapere che il suo vero padre era in realtà il proprietario della tenuta dove aveva vissuto da bambina, e che riceve in eredità. La sorella Nettie torna dall’Africa riportandole i figli ormai adulti. Il tutto stagliato nel tramonto, tra gli immensi campi coltivati della campagna del sud. Una scena talmente struggente da far piangere, ma – appunto – troppo a proposito, troppo perfetta. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se la sorella fosse tornata appena un po’ prima, quando Celie era ancora sotto il dominio e le angherie del marito. Che scena avrebbe girato Spielberg?

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Un’altra incongruenza che mi ha abbastanza disturbato: i figli di Celie, vissuti in Africa ma nati negli USA e adottati da una coppia statunitense, e con la zia Nettie a crescerli, parlano solo un dialetto africano, non una parola di inglese. Mah?
Infine, una critica ad un aspetto del plot che non è completamente impossibile, almeno in teoria, ma decisamente inverosimile per chi abbia un minimo di esperienza di vita: il dispotico, violento marito di Celie, a quanto pare pentito della sua passata cattiveria, paga di tasca sua – e a insaputa di Celie – gli oneri di immigrazione per la sorella e i figli, probabilmente per cercare di riscattarsi. Mi permetto di osservare che persone del genere raramente cambiano, e quasi mai in modo così radicale. Va anche detto, a discolpa del regista, che la sceneggiatura si limita a seguire il plot del romanzo da cui il film è tratto.

Comunque, bando alle mie malignità, due scene che vorrei condividere.

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Quando Celie e Nettie sono ancora adolescenti, quello che loro credono il padre si risposa con una ragazza di solo qualche anno più vecchia di loro. Durante la cerimonia, mentre le due sorelle ridacchiano fra di loro, la giovane si volta e le guarda. La mia interpretazione di quello sguardo indecifrabile, timido e rassegnato, triste ma in qualche modo interlocutorio e speranzoso, è che sia il classico sguardo della vittima che cerca aiuto: la giovane sposa non può non sapere che la sua vita matrimoniale sarà tutt’altro che facile – non per nulla vive nella stessa comunità, e la reputazione del marito, tanto più vecchio di lei, non può esserle ignota. Si volge quindi da subito alle due figliastre, sue coetanee, quasi in cerca di aiuto e complicità da parte del piccolo universo femminile del quale sta per fare parte.

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Ho già esposto le mie critiche al finale. Tuttavia, dal gran regista che è, Spielberg si riscatta con gli ultimi fotogrammi.  Le due sorelle, che non si sono incontrate per più di metà della loro vita, quando finalmente si riuniscono, si ritrovano nel gioco infantile di battersi le mani che facevano da piccole. Una scena sinceramente commovente per chiunque abbia avuto fratelli o piccoli amici.
Se pure con trama e approccio diversi, un altro film trattato in questo blog è sulla fratellanza: rimando alla lettura dell’articolo su “Una storia vera” nel post Road movies – Straight e Cheyenne
13 febbraio 2017