Due tra i mezzi di comunicazione più importanti dei nostri tempi. Il cinema è lo specchio dei tempi, e spesso si basa su fatti di cronaca. Sono anche molte le pellicole che raccontano il giornalismo e chi lo pratica.

Insider – Dietro la verità (The Insider, Michael Mann, 1999)

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Tratto da una storia vera, questo film vede due protagonisti di tutto rispetto, Russell Crowe e Al Pacino: il primo impersona Jeffrey Wigand, ex dirigente di una grande compagnia di tabacco, che decide di violare l’accordo di riservatezza per denunciare la vera composizione delle sigarette. Al Pacino è Lowell Bergman, un cronista d’assalto che fa parte dello staff di una trasmissione televisiva notissima negli USA, “60 Minutes” della CBS. Naturalmente le grandi compagnie del tabacco mettono in atto qualunque mezzo, lecito e illecito, per bloccare la minaccia, avvalendosi dei loro enormi patrimoni. Alla fine i due riusciranno a vincere la loro battaglia, e a trasmettere integralmente in tv l’intervista a Wigand, che denuncia i più turpi segreti messi in atto per creare dipendenza dalla nicotina tramite additivi cancerogeni.

Mann utilizza uno stile volutamente pesante, quasi a significare le difficoltà che i due protagonisti devono superare. Fa inoltre un utilizzo della cinepresa a mano che dà un efficace  taglio documentaristico ad alcune scene. Va anche sottolineata la serietà e l’accuratezza con le quali Mann si è documentato sulla vicenda, prima di affrontare le riprese.
Riguardo i protagonisti: mentre per Wigand la prima scelta era caduta su Val Kilmer, e Crowe venne selezionato solo successivamente, fin dall’inizio Mann volle solo Pacino – che aveva già diretto in “Heat” – per la parte di Bergman.

State of Play (Kevin Macdonald, 2009)

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Ancora Russell Crowe, questa volta nella parte del giornalista Cal McAffrey, un cronista di impostazione tradizionale, poco a suo agio con i moderni mezzi tecnologici.
Cal viene contattato da un suo vecchio compagno d’armi, un senatore (interpretato da Ben Affleck) la cui amante pare si sia suicidata. La vicenda si dipana con parecchi colpi di scena, fino ad una amara verità.
Crowe risulta molto a suo agio, credibile e persino – a suo modo – affascinante.
Segnalo Helen Mirren (attrice che amo molto) nel ruolo della grintosa editor del giornale. Una parte non di primo piano, ma che la Mirren interpreta con incisività e spessore, come da lei.

Prima Pagina (The Front Page, Billy Wilder, 1974)

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Questa intrigante, briosa pellicola è giocata sui toni della commedia, ma illustra con notevole efficacia un certo giornalismo d’assalto di marca USA nei primi decenni del ‘900.
Un cronista che si può dire nato per quel mestiere, Hildy Johnson (Jack Lemmon) ha deciso di mollare tutto per sposarsi e trasferirsi a Philadelphia a occuparsi di pubblicità nella ditta del futuro suocero. Il suo direttore Walter Burns (un impagabile Walter Matthau) ha però per lui piani diversi: Hildy è il suo cronista di punta, e lo vuole presente nella sala stampa del tribunale, per scrivere un pezzo su una esecuzione capitale che avverrà proprio il giorno successivo.
Per raggiungere il suo scopo, Burns fa di tutto (arrivando a diffamare Hildy con la fidanzata), ma soprattutto non accetta l’idea che un giornalista di razza come Hildy butti via il suo talento per occuparsi di pubblicità.
La situazione si complica quando il condannato evade e Hildy, casualmente solo nella sala stampa dove è andato a salutare i colleghi, lo nasconde per scrivere uno scoop.
Succede di tutto, ma alla fine Burns – apparentemente pentito del suo precedente comportamento – accompagna Hildy e la sua promessa sposa al treno che li porterà a Philadelphia.
Naturalmente non può finire così… ma non svelo come e perché per chi non abbia visto il film (rimediate subito!). I titoli di coda ci informano che Burns, una volta ritiratosi, si dedicò a conferenze sull’etica nel giornalismo (…).
Nonostante abbia ricevuto diverse critiche negative, specialmente dovute ai paragoni con versioni precedenti della stessa vicenda (*), io trovo questo film assolutamente irresistibile.
La ricostruzione dell’epoca è impeccabile. I protagonisti, che avevano duettato in modo strepitoso nel 1968 ne “La strana coppia”, si ritrovano di nuovo insieme, e divertono divertendosi.

(*) Questo film è infatti un remake. Le precedenti versioni, tutte tratte dalla stessa pièce teatrale, sono:
– “Prima pagina” (The Front Page, Lewis Milestone, 1931).
– “La signora del venerdì” (His Girl Friday, Howard Hawks, 1940) dove la trama ha complicazioni sentimentali per essere la cronista di assalto una donna, Claudette Colbert, e il direttore del giornale un fascinoso Cary Grant.

L’Asso nella Manica (Ace in the Hole, Billy Wilder, 1951)

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La trama richiama tristemente il giornalismo “sensazionale” tanto diffuso ai nostri giorni.
Chuck Tatum (Kirk Douglas), un cinico cronista, è stato licenziato dai giornali più importanti a causa dei suoi problemi con l’alcol. Si è ridotto a lavorare in un piccolo giornale di provincia ad Albuquerque, e aspetta l’occasione per rimettersi in gioco alla grande.
Il momento giusto sembra arrivare quando un uomo, Leo Minosa, rimane intrappolato in una caverna. Tatum si adopera cinicamente per ritardarne quanto più possibile il salvataggio e ricavarne un caso che lo rimetta in luce. Non ha il minimo scrupolo a sfruttare la buona fede dei genitori della vittima, e a diventare l’amante della moglie.
La stampa accorre, ma Tatum ha in pugno la situazione e manovra per barattare lo scoop col suo ritorno in una importante testata di città.
Le operazioni di soccorso procedono a rilento, e nel frattempo il luogo si affolla di curiosi e diventa un chiassoso, grottesco Luna Park.
Alla fine il povero Minosa muore, mandando in frantumi i sogni di Tatum, che morirà a sua volta in modo quasi accidentale per mano della moglie di Minosa.

Billy Wilder ha girato anche “Prima pagina”, commentato più sopra, film sul giornalismo di registro completamente opposto. E’ stato uno dei registi più eclettici del cinema statunitense di sempre. Non per nulla è considerato il creatore della commedia americana, e allo stesso tempo uno dei fondatori del genere noir.
Questa pellicola potrebbe a buon diritto essere ambientata ai nostri giorni, dove la cronaca-spettacolo e “del dolore” spadroneggiano ignobilmente. Wilder trasse spunto da fatti autentici, e scrisse la sceneggiatura, producendo il film oltre a dirigerlo.

Rimando al mio precedente articolo Issur Damsky compie oggi cento anni!… per altri commenti su questa pellicola.

Tutti gli uomini del presidente (All the President’s Men, Alan Pakula, 1976)

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Non potevo non citare questa storica pellicola. Tratta da fatti autentici, ed estremamente fedele alla vicenda originale, racconta la coraggiosa, complicata inchiesta di due giovani cronisti del Washington Post, che portò al caso Watergate ed alle clamorose dimissioni di Richard Nixon dalla presidenza degli Stati Uniti.

I protagonisti Robert Redford e Dustin Hoffman, che non potrebbero essere più diversi, sia nella finzione cinematografica che nella vita reale, danno vita ad una coppia memorabile. I loro personaggi sono diventati l’archetipo del giornalismo d’inchiesta.
Questa – insieme a “Una squillo per l’ispettore Klute” – è la pellicola più famosa di Pakula.

Una piccola curiosità:  il titolo, che tradotto suona un po’ bizzarro, allude ad una notissima filastrocca inglese, “Humpty Dumpy”, un uovo che cade e va in pezzi, e che nemmeno “tutti i cavalli e tutti gli uomini del re possono rimettere insieme”. Per gli anglofoni, queste strofe infantili sono da sempre sinonimo di un danno irreparabile, in questo caso quello che lo scandalo Watergate rappresentò per Nixon e i Repubblicani.

Good Night, and Good Luck (George Clooney, 2005)

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Devo ammettere che Clooney, che non mi è mai stato particolarmente simpatico, si è dimostrato negli anni un ottimo regista. Più di tutto, gradisco le sue scelte di temi da trattare e di attori da utilizzare, che indicano intelligenza e una notevole finezza di giudizio.
Anche in questo bel film, del quale ha co-scritto la sceneggiatura, si è giudiziosamente riservato un ruolo secondario, lasciando la parte principale all’ottimo David Strathairn.

La trama è tratta da una vicenda vera, anzi, da un pezzo di storia americana. Strathairn impersona Ed Murrow, che è stato un celebre anchorman della CBS.  Murrow si oppose con forza e indignazione alla campagna anti-comunista del senatore McCarthy, che a sua volta reagì con minacce e intimidazioni. Nella sua seguitissima trasmissione radiofonica serale “See It Now” Murrow denunciò gli abusi e le intimidazioni della commissione McCarthy. Nella sua crociata Murrow venne sostenuto e spalleggiato dal suo editor e dallo staff della trasmissione, anche se dovette a più riprese fare i conti con l’alta direzione della CBS, che mal vedeva uno scontro troppo diretto con l’allora potente senatore. Il titolo è il saluto che Murrow rivolgeva al pubblico radiofonico in chiusura di trasmissione.
La decisa campagna di Murrow contribuì grandemente a mettere la parola fine all’era McCarthy.

Dato che si parla di cinema, va detto che McCarthy e la sua commissione si accanirono non poco anche contro personalità assai in vista del mondo cinematografico: Charlie Chaplin, Elia Kazan, Gary Cooper, Ronald Reagan, e altri. Molti decisero di collaborare, ma diversi altri, capeggiati da Humphrey Bogart, si opposero con decisione ai metodi intimidatori della commissione, organizzando manifestazioni e sit-in.
Per ulteriori dettagli, rimando a questo ben documentato articolo sul Maccartismo nel blog Rock’N’Blog.

Qualche curiosità sul fim:
– Nonostante sia stato girato a colori, venne poi convertito in bianco e nero in post-produzione. Tale decisione è dovuta al fatto che Clooney e il produttore Grant Heslov vollero inserire nel film delle autentiche riprese dei lavori e delle audizioni della commissione McCarthy, che ovviamente erano in bianco e nero. Peraltro tali inserimenti contribuiscono in modo efficace alla riuscita storiografica del fim.
– Clooney non potè assicurarsi, poichè sul set di “Syriana” era rimasto ferito e non passò quindi i test obbligatori. Per ottenere i fondi necessari impegnò quindi la sua casa di Los Angeles.

Quarto Potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941)

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Come si sa, Welles scrisse, diresse, e interpretò questa pellicola quando aveva solo 25 anni, traendo spunto dalla vita del magnate dell’editoria William R. Hearst.
Rappresenta sotto molti aspetti un film di rottura, una vera svolta nella storia del cinema per tematiche, realizzazione, espedienti tecnici, costruzione narrativa.
La vita di Charles Foster Kane viene narrata a flashback, tramite le testimonianze di cinque persone che lo hanno conosciuto sotto aspetti diversi, e in un caso tramite il diario di una di loro. Per un commento sul motore narrativo del film rimando alla lettura dell’articolo MacGuffin classici in questo blog.

Dal punto di vista tecnico, Welles fa un uso sperimentale del piano sequenza (di cui poi diventerà maestro: ricordo quello, celebre, all’inizio de “L’infernale Quinlan”, Touch of Evil, 1958, uno dei piani sequenza più lunghi della storia del cinema) e della profondità di campo, avvalendosi dello straordinario contributo di Gregg Toland, leggendario direttore della fotografia.
Il taglio delle scene e l’uso dei chiaro-scuri sono fortemente espressionistici: non per nulla all’epoca Hollywood diede ricetto a diversi registi tedeschi emigrati dalla Germania per sfuggire al nazismo.citizenkane

Welles stesso inventò alcuni espedienti registici: per esempio, la macchina da presa inquadra i personaggi dall’alto o dal basso, facendoli apparire forti o deboli a seconda della scena.
Durante il confronto fra Kane e il suo capo-cronista e amico Laland (interpretato da Joseph Cotten) Welles fece addirittura scavare una buca per riprendere la scena dal livello del pavimento.puzzle

La narrazione a flashback salta continuamente dal presente al passato, componendo il puzzle della vita di Kane (puzzle che compare metaforicamente in più punti del film) e in alcuni casi fornendo più di una versione degli stessi eventi, così come vengono ricordati da protagonisti diversi.

Il film fu fortemente boicottato da Hearst che, riconoscendovi troppi punti di contatto con la propria vita, tentò di impedirne la distribuzione e anche di distruggere la pellicola e i negativi.  Hearst mobilitò tutte le sue testate giornalistiche per denigrare la pellicola, e le conseguenze furono tangibili: non fu il flop al botteghino che spesso si pretende, ma nemmeno un successo, e il prestigio di Welles ne venne gravemente scosso.
La rivincita venne negli anni ’50, e da allora in poi l’indiscutibile valore di questo film non venne più messo in discussione, anzi, crebbe nel tempo.

Quinto Potere (Network, Sidney Lumet, 1976)

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Il titolo italiano vuole ovviamente ricalcare quello del capolavoro di Welles, suggerendo che ne sia la continuazione, ovvero, l’impero del giornalismo televisivo dei nostri tempi contrapposto al giornalismo su carta stampata dell’era precedente.

Il film è discontinuo, con inverosimiglianze narrative che sembrano volute. I caratteri e le situazioni sono spesso grotteschi ed eccessivi, in alcuni casi sfiorano il ridicolo involontario. Tuttavia, l’insieme riesce a rendere in modo inquietante il clima delle network, e non solo di quelle statunitensi, dove lo share è l’unico dio e si fa di tutto per fare ascolti e rimanere sulla cresta dell’onda.
Il plot vede Howard Beale (interpretato da un ottimo Peter Finch), un anchorman della UBS, diventare una specie di “pazzo profeta dell’etere” che lancia dallo schermo feroci critiche e previsioni apocalittiche. Gli ascolti hanno un picco, ma le esternazioni sempre più anarchiche di Beale mettono in difficoltà la UBS. Alla fine i responsabili della rete decidono di eliminare fisicamente Beale, assoldando dei criminali che lo uccidono mentre è in onda.
La voce fuori campo che accompagna tutto il film commenta alla fine: “Questa è la storia di Howard Beale, il primo caso conosciuto di un uomo che fu ucciso perché aveva un basso indice di ascolto.”

Gli attori corrispondono al clima del film con una recitazione convulsa, specie Faye Dunaway, che sfora in atteggiamenti quasi isterici, e un William Holden quasi irriconoscibile. Un film interessante, nonostante le sue pecche, e tristemente realistico nei meccanismi aziendali che descrive.

Altri film sul giornalismo (in ordine decrescente di data):
– Spotlight (Tom McCarthy, 2015)
– Frost/Nixon (Ron Howard, 2008)
– Quasi famosi (Almost Famous, Cameron Crowe, 2000)
– Eroe per caso (Hero, Stephen Frears, 1992)
– Dentro la notizia (Broadcast News, James Brooks, 1987)
– Urla del silenzio (The Killing Fields, Roland Joffé, 1984)
– Un anno vissuto pericolosamente (The Year of Living Dangerously, Peter Weir, 1982)
– Diritto di cronaca (Absence of Malice, Sidney Pollack, 1981)
– Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, George Cukor, 1940)

26 febbraio 2017