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Il tema del doppio nel cinema – parte terza: il doppio dissociato

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René Magritte – Decalcomania

La dissociazione fa parte della nostra vita di tutti i giorni: per esempio quando guidiamo compiamo le manovre automaticamente, mentre la nostra mente è impegnata altrove (salvo accorgersi poi di aver perso l’uscita giusta…). Anche attività ripetitive e monotone, come quelle richieste in una catena di montaggio, vengono svolte per lo più in uno stato dissociato che le rende più tollerabili. In questi e altri casi analoghi, la dissociazione è temporanea, e siamo in grado di riprendere rapidamente il controllo di noi stessi e delle nostre azioni.

Quando però la personalità è dissociata in modo stabile e permanente, allora è una patologia gravissima. Di questo tema si è spesso occupato il cinema, prendendo a volte spunto da casi autentici.

Il dottor Jekyll e Mister Hyde

Il racconto di Stevenson, dal quale tante pellicole sono state tratte, è tra i più inquietanti che si possano concepire. L’autore dichiarò di averlo scritto di getto a seguito di un incubo da lui realmente sofferto. Nella trama il dottor Jekyll, fondamentalmente un uomo retto, riesce tramite una scoperta scientifica a trasformarsi in un essere, Hyde appunto, crudele, vizioso e violento. Ma l’ebbrezza di poter dare sfogo alle sue pulsioni più represse (ricordiamoci che Jekyll vive nella bigotta società vittoriana) lo rendono imprudente: abusa della sua scoperta fino a che la sua personalità malvagia prende il sopravvento. Il suicidio è l’unica soluzione, la distruzione del fragile guscio di carne che per tante volte ha dovuto sopportare “la nausea mortale” della metamorfosi.

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La copertina originale del racconto di Stevenson.

Si è spesso parlato del racconto come di una metafora della lotta tra bene e male, ma trovo questa interpretazione restrittiva. Jekyll non è “il bene”: come qualunque essere umano, è un miscuglio di bene e male, di istinti retti e pulsioni inconfessabili. Di contro, Hyde è il male allo stato puro, ma – e qui sta il fascino insidioso del racconto – è pur sempre parte di Jekyll, e questi non lo può disconoscere. Per tale motivo il rapporto tra le due personalità è così impari: Hyde non si cura di Jekyll e lo disprezza; ma Jekyll non può fare a meno di Hyde, perché rinunciando alla libertà di cui gode sotto le sue spoglie soffrirebbe di angosciosi desideri irrealizzati.

Naturalmente il cinema si è servito in abbondanza di un materiale così intrigante. Ma vi era un ostacolo, che costituisce la differenza più eclatante fra il racconto e le sue trasposizioni cinematografiche. In ogni pellicola che ha trattato il tema, comprese le molte parodie, Hyde è raffigurato come un mostro ghignante e deforme (tranne in un caso, che ho incluso nella mia selezione). Nel racconto, invece, Hyde non ha una connotazione fisica particolare. E’ un individuo abbastanza piccolo di statura, che dà una impressione di deformità senza però avere difetti fisici evidenti. La sua malvagità si manifesta in una indefinibile ma fortissima repulsione fisica, un malessere istantaneo che prova chiunque lo avvicini. Infatti Hyde, “unico sotto le stelle”, è male allo stato puro, e ciò viene avvertito dagli esseri umani normali. Tale caratteristica è però indubbiamente difficile da rendere in un film, mentre il binomio “deforme nello spirito = deforme nel corpo” non solo è più semplice da realizzare, ma rispondeva ad un diffuso preconcetto – per erroneo e primitivo che sia – che solo in tempi relativamente recenti sta regredendo.

Il dottor Jekyll e Mr. Hyde (con John Barrymore, 1920)

Cito questa pellicola muta perché il protagonista John Barrymore ci mostra per la prima volta la trasformazione in un Mister Hyde mostruoso. All’epoca questa scena deve avere terrorizzato il pubblico; oggi ha naturalmente un effetto ben più blando, ma è comunque notevole per l’epoca il trucco cinematografico della metamorfosi, realizzato con lo stop-motion.

Il dottor Jekyll e mr. Hyde (con Spencer Tracy, 1941)

Forse la pellicola che la maggior parte di noi ricorda. Anche in questo caso il buon dottore si trasforma in un essere mostruoso (anche se non troppo). Ma quello che ho sempre trovato interessante è che nel film si allude in modo piuttosto esplicito alle forti pulsioni sessuali di Jekyll: atteggiamenti un po’ spinti (per l’epoca descritta nel film) verso la fidanzata interpretata da Lana Turner, e una allucinazione decisamente erotica, con la Turner e Ingrid Bergman (l’amante che si prende sotto lo spoglie di Hyde) viste come puledre che lui frusta violentemente.

In questo senso il film rende palese ciò che il racconto di Stevenson adombra soltanto, ovvero che la libertà tanto agognata da Jekyll, e della quale riusciva a godere come Hyde, riguardava la sfera sessuale. Un argomento tabù nell’epoca vittoriana.

Mary Reilly (con John Malkovich, 1995)

E’ in questo film che per la prima e forse unica volta, almeno nella mia limitata conoscenza, Mister Hyde non è un essere mostruoso fisicamente. E’ anzi di migliore aspetto di Jekyll, e molto più giovane, la sua mostruosità è solo morale.

Ho incluso questo film nella selezione solo per questo aspetto.
Il cast è di star famose, Julia Roberts, John Malkovich, Glenn Close. Ma la somma è inferiore ai suoi addendi: secondo me è un film poco riuscito, che punta tutto sul pur bravo protagonista, e sulla scena di trasformazione finale, che vorrebbe essere di grande effetto ma che personalmente trovo che sfiori il ridicolo involontario.

Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980)

Questa pellicola di Brian De Palma fu assai controversa: il regista venne criticato di aver spinto troppo sulle scene di sesso, venne osteggiato dalla comunità gay per aver a loro dire mostrato omosessuali e transessuali in chiave negativa e stereotipata, e fu anche avversato dalle femministe.

In mezzo a tanto clamore e pareri discordi, resta secondo me un riuscito thriller dove la doppia personalità del protagonista, il bravissimo Michael Caine, è la chiave di lettura di tutta la vicenda. Caine ricopre infatti il ruolo del dottor Elliott, lo psichiatra attorno al quale ruotano praticamente tutti gli altri protagonisti, e della bionda assassina Bobbi che miete vittime sgozzandole con un rasoio. Solo alla fine si scoprirà che non di una donna si tratta, ma del dottore stesso, preda di una irrefrenabile compulsione omicida.

Psycho (1960)

Come non citarlo? Non ho certo bisogno di riepilogare la trama, e per farne una analisi approndita occorrerebbero volumi. E’ stato la base di tesi di laurea, saggi piscoanalitici, dibattiti, interviste. In questo blog l’ho già citato alcune volte: La scena della doccia in Psycho ,  Serial killer – Ed Gein .

Nella risolutiva scena finale, Norman Bates si arrende totalmente alla personalità della madre, che ha preso definitivamente il sopravvento su di lui. Fu Hitchcock a volere la sovrapposizione del teschio mummificato della madre sull’inquietante sorriso del protagonista. Una trovata efficacissima per trasmettere ancora più ansia nello spettatore, di fronte a questo spettacolo di completa alienazione mentale.

Despair (1978)

È il primo film in inglese di Fassbinder, tratto da un romanzo di Nabokov. È interpretato da Dirk Bogarde e Andréa Ferréol (la quale sembra avere un debole per queste trame ambigue e morbose, vedi “Lo zoo di Venere”).

La storia è ambientata in Germania nel 1930. Il protagonista Hermann Hermann (doppio già nel nome) è un industriale del cioccolato di origini ebraiche emigrato dalla Russia diversi anni prima. L’uomo è nel pieno di una personale crisi di identità, contrappuntata dalla fase di crisi sociale rappresentata dal passaggio della Germania al nazionalsocialismo.

Il disagio personale del protagonista prende corpo in alcune scene significative, come quando nella sua fabbrica osserva con autentico orrore la produzione in serie di statuette di cioccolato. L’uomo si sente fuori posto in tutti gli aspetti della sua vita: è ebreo in una società sempre più anti-semita; è marito di una donna bella ma stupida, e piena di voglie che lui non riesce a soddisfare; il suo appartamento è lussuoso ma angosciante, pieno zeppo com’è di specchi, vetrate, oggetti, decorazioni.

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Lo sbocco che Hermann trova per uscire dalla sua situazione è di crearsi un doppio, un autentico alter ego. Il suo piano è di darsi per morto e riscuotere la propria assicurazione. Per fare ciò ingaggia un vagabondo, Felix Weber, con la scusa di fargli fare da controfigura in alcune riprese cinematografiche. Hermann crede di riconoscere in Felix il proprio sosia, anche se questa convinzione è solo frutto della sua mente ormai malata. Non solo Felix non gli assomiglia, ma non a caso è tutto ciò che lui non è: sporco, povero, col carattere deciso, e soprattutto libero.

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La conclusione della storia è in qualche modo anticipata da una scena ambientata in un cinema dove viene proiettato un film muto che narra la storia di due gemelli, un criminale e un poliziotto, e che finisce tragicamente.
Hermann uccide Felix e fugge in Svizzera con la sua nuova identità, ma viene presto scoperto dalla polizia, che circonda l’albergo dove si è rifugiato.

L’ho trovato un film molto interessante, nonostante Fassbinder non sia un regista che amo particolarmente. Hermann è sostanzialmente un codardo, che si illude di poter prendere il controllo della propria vita e di dominarla tramite la violenza su un altro essere. Esattamente quello che stava succedendo con l’avvento del nazismo in Germania, nel periodo raccontato nella pellicola.

Lo zoo di Venere (A Zed and Two Noughts, 1985)

In questo film di Peter Greenaway tratta il tema del doppio, e in generale della simmetria, in modo esteso.  La trama è abbastanza morbosa, e davvero particolare. Provo a raccontarla, ma sinceramente non è facile.

In un incidente davanti a uno zoo, per colpa di un cigno, muoiono due donne. I rispettivi mariti Oliver e Oswald sono gemelli siamesi (interpretati da Brian e Eric Deacon, fratelli anche nella realtà), e la morte delle mogli aggrava la loro già esistente ossessione per la decomposizione animale. Entrambi iniziano una relazione sessuale con Alba (ancora Andréa Ferréol!), che nello stesso incidente è rimasta mutilata di una gamba (da notare che nello zoo, attorno al quale gravitano tutti i protagonisti, c’è una scimmia anche lei mutilata di una zampa).
Ogni tanto i tre liberano qualche animale dello zoo, e i loro amplessi avvengono in un letto disfatto coperto di lumache. I due gemelli attrezzano un laboratorio fotografico dove riprendono i progressivi stadi di decomposizione di vari animali. A un certo punto i due convincono Alba ad amputarsi anche l’altra gamba, credo per una questione di simmetria.

Alba dà alla luce due gemelli, dei quali non si capisce bene se il padre sia Oswald o Oliver, e muore. I due fratelli si danno a loro volta la morte per veleno su un palco dove hanno allestito centinaia di macchine fotografiche, ritengo per documentare la loro decomposizione.

Come avrete capito, Greeneaway è un regista di cinema sperimentale (molto sperimentale). Non ho dubbi che i riferimenti culturali, artistici e filosofici siano molti e interessanti, ma personalmente l’ho trovato un film molto difficile da seguire fino in fondo, e non so sinceramente che significato attribuirgli. Di contro, la fotografia e certe invenzioni visive sono molto efficaci (molti i richiami ai pittori fiamminghi, soprattutto Vermeer), ma non so se basti: è un film cerebrale e perverso sino all’estremo, incentrato sulla materialità dei corpi e la loro decomposizione, ed estremamente disturbante.

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Il cigno nero (Black Swan, 2010)

Nina (Natalie Portman) è una giovane ballerina classica, che la madre (possessiva e anche gelosa del suo talento) continua a tenere in uno stato pre-adolescenziale. Nina viene scelta per interpretare il doppio ruolo di Odette e Odile in un allestimento del Lago dei Cigni. L’enorme pressione che grava su di lei, unita al suo maniacale perfezionismo e al costante timore che la rivale Lily possa prendere il suo posto, la trascinano in una spirale di follia, dove non riesce più a distinguere tra realtà e immaginazione. La dualità che vive nella vita reale è contrappuntata dal doppio ruolo sulla scena. Alla fine Nina morirà di sua stessa mano, non prima di avere concluso il balletto suscitando l’entusiasmo del pubblico.

I due personaggi del balletto, Odile e Odette, sembrano riflettere le personalità di Nina durante la vicenda: una repressa, alla ricerca della perfezione (il Cigno Bianco), l’altra disinibita e sensuale (il Cigno Nero). E questo si palesa tramite la presenza ossessiva degli specchi: come si sa, lo specchio è uno strumento di lavoro per un danzatore, ma per Nina diventa anche il testimone della sua evoluzione, o meglio devoluzione psichica.

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In complesso, non un film memorabile o riuscitissimo, ma con alcuni momenti interessanti, scanditi dal passaggio tra le allucinazioni della protagonista, e il suo ritorno ad una realtà che però non riesce a riconoscere come tale.

In questo spezzone vi è una scena significativa, quando il doppio di Nina comincia a materializzarsi appunto tramite uno specchio. Per altri articoli sul tema del doppio nel cinema, si rimanda alla pagina Cinema.


 1 luglio 2017

Una risposta a "Il tema del doppio nel cinema – parte terza: il doppio dissociato"

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