Ringrazio il mio amico Gianmarco che mi ha dato l’idea di questo articolo.
La narrazione a flashback (analessi in italiano) risale a tempi antichissimi. Nell’Odissea bisogna attendere l’ottavo libro per sentire dalla bocca di Ulisse la sua storia dalla caduta di Troia fino al tempo presente e al suo arrivo nella terra dei Feaci, ovvero tutto il pezzo che ci manca per capire come e perché sia arrivato lì.
Naturalmente è un espediente di grande effetto per tenere alta la tensione: si comincia con una situazione nel tempo presente, sapendo poco o nulla delle vicende precedenti, il che è sicuramente intrigante.
Un altro esempio letterario è “La lettera scarlatta” di Hawthorne. Il libro inizia con Hester Prynne esposta nella pubblica piazza per aver dato alla luce una bimba di cui si rifiuta di rivelare la paternità. Gli eventi che l’hanno portata lì verranno spiegati man mano durante la narrazione, ma certamente il colpo di teatro di presentare come prima scena una donna esposta alla pubblica gogna è efficacissimo.
Oppure “Jane Eyre” di Charlotte Brontë, dove è la protagonista stessa, in prima persona, a narrare le sue vicende in flashback (praticamente tutto il libro), fino a portarci al tempo presente della narrazione, che si limita a occupare il solo, brevissimo capitolo finale.
Si può andare avanti all’infinito, ma lo scopo di questa introduzione è di prendere semplicemente atto che il cinema non ha fatto altro che avvalersi di una tecnica narrativa ampiamente collaudata, aggiungendovi la suggestione delle immagini.
Vediamo quindi un po’ di film impostati sui flashback, e cominciamo con un esempio anomalo ma suggestivo, ovvero…
Memento (Christopher Nolan, 2000)
In latino (ma è usato anche in italiano) significa semplicemente “ricordati”, ma in inglese ha anche un altro significato, ovvero qualsiasi oggetto che serva per ricordarsi di qualcosa: un foglietto, una nota. Esattamente quello che fa il protagonista Leonard Shelby (un sorprendente Guy Pearce), che in seguito ad una aggressione nella quale la moglie è stata stuprata e uccisa ha perso la memoria a breve termine. Non riesce a ricordare nulla per più di quindici minuti, e per ovviare al problema prende frenetici appunti su chi conosce, incontra, su quello che ha fatto e deve fare. Scrive le sue note su quaderni, post-it, arrivando a tatuarle sul proprio corpo, e scatta decine di Polaroid sulle quali scrive informazioni sulle persone che incontra. La sua missione è trovare chi abbia ucciso la moglie e ridotto lui in quello stato.
Il plot non è precisamente facile da seguire, almeno all’inizio, perché il montaggio – funzionale alla storia – ci mostra 15 minuti alla volta, per poi ripartire da un altro punto, mostrandoci in tal modo quello che avviene nella mente del protagonista. I due filoni principali sono identificati dalle scene a colori, che procedono a ritroso nel tempo, mentre quelle in bianco e nero viaggiano in avanti, se pure con qualche sconnessione e dei flashback qua e là. Le due linee narrative finiscono per incontrarsi nel finale, che però cade nella parte centrale del film.
C’è una scena del film, uno dei tanti flashback, che assume un sapore ironico considerando quello che seguirà. Leonard è a letto con la moglie, che sta rileggendo un libro già letto diverse volte. Lui osserva: “Lo hai già letto un migliaio di volte. Credevo che il bello dei libri fosse nello scoprire cosa succede dopo“.
La tesi più ovvia che questo intrigante film ci propone è la necessità umana di avere un appiglio logico e sequenziale agli eventi per poter sopravvivere. Ma insinua anche altre domande altrettanto inquietanti: possiamo davvero credere a tutto ciò che vediamo? se sapessimo veramente tutto del passato, potremmo prevedere il futuro?
Rashomon (Akira Kurosawa, 1950)
Una pellicola storica, che ruota intorno alla verità e alle sue mille sfaccettature, e che probabilmente sarebbe piaciuta a Pirandello.
Un boscaiolo, un monaco, e un passante, rifugiatisi in un edificio diroccato per sfuggire a un violento temporale, parlano di un fattaccio di qualche tempo prima. Un brigante ha stuprato una donna e ucciso il marito di lei, un samurai. La vicenda viene narrata a flashback tramite quattro testimoni: il brigante, la donna stuprata, il samurai ucciso (anzi, il suo fantasma per la precisione), e infine il boscaiolo stesso. I primi tre danno del fatto versioni diverse, dove cercano di fare la migliore figura possibile. Il boscaiolo però si proclama l’unico testimone attendibile, e la sua versione mette tutto sotto una luce molto più meschina (e perciò più credibile). Anche il suo racconto però viene messo in discussione.
Un vero gioco di scatole cinesi, dove l’uso delle luci, la fotografia, il montaggio, contribuiscono alla carica di ambiguità del racconto.
Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1994)
L’impostazione a flashback non è la sola caratteristica notevole di questa famosa pellicola. E’ tuttavia la prima che viene proposta allo spettatore. Forrest (Tom Hanks), seduto su una panchina in attesa dell’autobus che – scopriremo alla fine – lo deve portare dalla sua Jenny, cambia interlocutori man mano che il film avanza, ma ciò non ferma il fluire dei suoi ricordi: dal primo paio di scarpe che ricorda (le sue “scarpe magiche”) fino al tempo presente, passando per gli anni dell’università, la guerra in Vietnam, la sua carriera di campione di ping-pong, pescatore di gamberi, “runner”.
Quarto Potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941)
Non c’è niente da fare, non c’è quasi argomento cinematografico che in un modo o nell’altro non si possa richiamare a questo spartiacque della storia del cinema. Ho trattato questa storica pellicola in due articoli: Cinema e giornalismo e MacGuffin classici.
Ho trovato questo trailer alternativo, creato dagli studenti di una scuola di comunicazione di New York. Mi sembra interessante, quindi lo propongo al posto del trailer ufficiale.
Up (Pixar Animation, 2009)
Questo piccolo delizioso capolavoro di animazione comincia con un lungo flashback su Carl (il protagonista) e Ellie, che si conoscono da ragazzini, condividono l’amore per l’avventura, si sposano, non riescono ad avere bambini, non riescono a fare il viaggio che hanno sognato per tutta la vita, ma continuano tuttavia ad amarsi teneramente. Diventano vecchi, ed Ellie muore, lasciano Carl solo e inacidito, con i loro sogni nel cassetto ancora irrealizzati. Si arriva quindi al tempo presente, dove Russell, un bimbetto sovrappeso di straripante simpatia arriverà a cambiare la vita del misantropo Carl, e a coinvolgerlo nell’avventura che ha sempre sognato di vivere con la sua amata Ellie.
Ho sempre pensato che tutta la parte iniziale narrata in flashback è decisamente più adatta ad un pubblico adulto che infantile. Non che vi sia nulla di scioccante, anzi, ma è talmente delicata e toccante, ed intrisa di malinconia alla fine, che può essere capita solo da chi ha un po’ di esperienza di vita.
Hiroshima, mon amour (Alain Resnais, 1959)
Narra due giorni di una attrice francese giunta a Hiroshima per girare un film contro la guerra. Incontra un architetto giapponese, diventano amanti, parlano, litigano, fanno pace. Dei due non ci viene detto il nome.
La tragica atmosfera della città, flagellata dall’esplosione atomica, fa ritornare in lei il ricordo di un soldato tedesco amato durante l’occupazione e morto tragicamente. Ma, ci vuole dire il regista, anche una tragedia collettiva come la guerra, con la sua immane perdita di vite umane, non si può paragonare, nè può bilanciare, la perdita di una persona amata.
Resnais ottiene l’effetto voluto tramite un utilizzo veramente innovativo dei flashback e con un montaggio superbo.
Highlander (Russell Mulcahy, 1986)
Un film che divenne presto di culto, e incentrato sui continui flashback del protagonista, l’ “immortale” Conner MacLeod, che fanno da trait d’union fra il suo presente a New York e il suo remoto passato nella Scozia del 1500.
Vari elementi contribuirono al successo del film, oltre alla insolita trama: la carismatica presenza di Sean Connery, un fascinoso protagonista come Christopher Lambert, la suggestiva colonna sonora dei Queen.
Viale del Tramonto (Sunset Boulevard, Billy Wilder, 1950)
Il cinema che parla del cinema. Questa celeberrima pellicola incontrò un immediato successo di pubblico che durò nei decenni. Ancora oggi è considerato uno dei film più noti della cinematografia statunitense. La critica dell’epoca fu però molto dura: Wilder aveva messo troppo a nudo l’establishment di Hollywood, e la spietata logica che buttava come rottami i divi ormai in declino (un tema ripreso recentemente da “The Artist” in modo secondo me molto interessante, e in verità mi ha abbastanza sorpreso che l’analogia con il film di Wilder non sia stata colta).
Come si sa, il film è interamente narrato in flashback dal protagonista Joe Gillis (William Holden). Per essere precisi, dal suo cadavere che galleggia nella piscina della faraonica villa di Norma Desmond (Gloria Swanson). Qualche particolare su questa scena iniziale. Fin da subito l’idea era di far narrare la vicenda al protagonista defunto. Tuttavia il primo tentativo fu un fiasco: la narrazione iniziava nell’obitorio dove era stato portato il cadavere di Gillis. Ad una anteprima però il pubblico scoppiò a ridere, e Wilder si rese conto che avrebbe dovuto cambiare location.
Venne quindi scelta la piscina della villa, che al protagonista piaceva così tanto. Ma l’effetto che il regista cercava, la ripresa del cadavere dal fondo della piscina, non era facile da ottenere. Alla fine ci si riuscì piazzando uno specchio sul fondo della piscina e filmando il riflesso. Questo espediente faceva sì che anche le immagini dei poliziotti sul bordo venissero distorte, amplificando l’effetto grottesco della scena.
28 luglio 2017
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