Gli attacchi terroristici di ieri in Spagna hanno riportato alla ribalta, per l’ennesima volta, una triste routine: l’accertamento dei fatti, la conta di vittime e feriti, le testimonianze, le ipotesi investigative.

Purtroppo fanno parte della routine anche certe deteriori dinamiche che si rischia – con la ripetizione – di considerare normali. Sorvolo sulla “foto a tutti i costi” che pare sia diventata uno sport internazionale a basso prezzo. Guardando i telegiornali ieri abbiamo tutti visto numerosissimi “curiosi” vagare intorno alle zone degli attacchi (inutilmente respinti e ammoniti dalle forze dell’ordine) con il solo scopo di catturare l’immagine, il video, il selfie (ma come si fa a farsi un selfie sul teatro di una strage?) e poi caricarlo subito su qualche social network, a non si sa bene quale scopo. Per poter dire “io c’ero”, “guarda mamma come mi diverto”, “cicci, ti penso anche qui”, e poi andare a farsi una birretta?

No, ciò a cui mi riferisco è altro, è un fenomeno di sciacallaggio ipocritamente mascherato da sollecitudine, comprensione, empatia verso le vittime e i loro cari. Sono le foto e i video più raccapriccianti postati a ripetizione con frasi tipo “preghiamo per le vittime”, “i nostri pensieri per loro”, e hashtag come #lovebarcelona.
Tutto ciò per l’insano brivido di distribuire senza ritegno immagini morbose, senza nessun rispetto e considerazione per morti e vivi.

Il concetto è molto ben compendiato dal post che la Guardia Civil spagnola (paragonabile alla nostra Arma dei Carabinieri) ha distribuito da ieri.

guardiacivil
Nessuno può evitare che ci sia chi diffonde immagini macabre dopo un attentato, ma tu puoi aiutare a far sì che non diventino virali. Per favore non diffondere le immagini. Il dolore è di tutti.

Quando ero piccola, ricordo un gesto che gli adulti facevano ogni volta che qualcosa era considerato troppo crudo per degli occhi infantili: con una mano, coprivano gli occhi dei bambini. Poteva essere un incidente stradale, o qualsiasi altra cosa da cui dover proteggere una sensibilità ancora in divenire.

Oggi non si fa più. Ai bambini non viene risparmiato nulla, vedono in tv cose assai peggiori di un incidente stradale, e si abituano a considerarle normali. E i violentissimi e  realistici videogiochi che circolano contribuiscono ad aumentare il senso di distacco dalla realtà delle cose. Ricordo la sorpresa con la quale alcuni giovani militari statunitensi di stanza in Irak commentavano i risultati delle loro azioni: la gente moriva davvero, veniva davvero mutilata, sanguinava sul serio. “Non è come nei videogiochi” commentò uno che aveva due occhioni tondi ancora da ragazzino. Se non fosse stata terribilmente tragica, tanta ingenuità avrebbe suscitato un sorriso.

E noi adulti ci stiamo anestetizzando sempre di più. Riusciamo a vedere immagini tremende mentre ceniamo, e non ci va nemmeno il cibo di traverso.

La soglia del dolore (in questo caso morale e non fisico) si è alzata enormemente. Ma rispetto, civiltà, compassione per il prossimo dovrebbero sussistere. E’ quella serie di sentimenti che i latini chiamavano con una sola parola: pietas  (un termine che nulla ha a che vedere con la pietà come la intendiamo oggi).

E far circolare immagini di esseri umani martoriati, parenti che piangono, mattonelle insanguinate, condite con cuoricini, faccine che piangono, hashtag vari – come se fosse un gioco – non ne fa parte: è solo morbosità, e della peggior specie.

Luisa Fezzardini, 18 agosto 2017