Non per nulla il titolo di questo angosciante, drammatico film è diventato un comune modo di dire. La pellicola (On the Beach, 1959) è tratta assai fedelmente dall’omonimo romanzo di Nevil Shute, e non è la sola di quel periodo a trattare di un possibile olocausto nucleare.
La minaccia dell’atomica e delle sue potenzialità di annientamento planetario si era palesata in tutta la sua drammaticità verso il finire degli anni ’40, quando gli effetti dei bombardamenti sul Giappone divennero noti al pubblico mondiale.
Il cinema non poteva non recepire il clima di sottile ma concreta angoscia che tale scenario prospettava. “L’ultima spiaggia” è uno dei frutti di tale comune sentire.
Il regista Stanley Kramer, che spesso girò film insoliti e incentrati su grandi temi etici (“La parete di fango”, “Vincitori e vinti”, per citarne solo un paio), scelse un cast davvero stellare: Gregory Peck, Ava Gardner, Anthony Perkins, anche Fred Astaire in un ruolo per lui assai insolito e che interpretò egregiamente.
Per una qualche magica alchimia, tutti gli attori si produssero in una recitazione sobria e corale, senza cercare di emergere individualmente a discapito di una storia che era a tutti gli effetti la storia dell’umanità, non solo del pugno di individui parte del plot.
La vicenda è collocata in un futuro allora prossimo, il 1964. La terza guerra mondiale si è conclusa con l’annientamento reciproco di tutte le potenze nucleari dell’emisfero settentrionale del globo. Quella metà della Terra è deserta e inabitabile a causa delle radiazioni. L’emisfero meridionale è ancora intatto, ma per poco: la contaminazione radioattiva si sta estendendo, e presto raggiungerà tutto il mondo.
Un incrociatore della marina statunitense, l’ultimo rimasto, si dirige in Australia, per il momento ancora terra incontaminata, dove è stato trasferito ciò che resta del comando dell’ammiragliato USA.
Varie vicende umane si intrecciano, sullo sfondo dell’incombente e inevitabile annientamento della razza umana. La giovane moglie dell’ufficiale australiano Holmes (Anthony Perkins), che è appena diventata madre di una bambina, non riesce ad accettare l’idea che la sua creatura non abbia un futuro.
Il capitano Towers (Gregory Peck), pur attratto dalla signora Davidson (Ava Gardner), rifiuta la fosca realtà del tempo presente, e continua a parlare della moglie e dei figli, ormai morti da tempo, come se fossero ancora vivi.
Il fisico nucleare Osborne (Fred Astaire), che più e meglio degli altri sa valutare l’ineluttabilità della situazione, è cinicamente rassegnato al destino suo e dell’umanità.
La storia si snoda verso il suo inevitabile finale, tra vari tentativi di trovare una zona incontaminata, e disperate quanto vane fughe: la moglie di Holmes cerca di raggiungere il Regno Unito con la sua neonata, pur sapendo che là come altrove non vi è ormai che il deserto; uno dei marinai partiti per una ricognizione si getta in mare nei pressi di San Francisco, anche se sa che è ormai annientata, perché là è nato e là vuole morire.
Una scena mi è rimasta particolarmente impressa, per la sua agghiacciante banalità. A un certo punto il vascello USA, che è in ricognizione, capta dei segnali Morse provenienti da San Diego. Si spera nell’impossibile, che vi siano sopravvissuti e forse una zona ancora abitabile in suolo statunitense. Quando un ufficiale protetto da una tuta anti-radiazioni si avventura a terra, scopre che si tratta di una bottiglia di Coca-Cola, rimasta impigliata in una tendina, che sbatte sull’apparato radio trasmettendo segnali casuali.
Sembra una scena secondaria, ma per me è la più drammatica, col senso di disillusione, squallore, e disperazione che trasmette.
Al ritorno dalla missione di ricognizione, Towers scopre che tutti i suoi connazionali rifugiatisi in Australia sono morti per le radiazioni. Il governo australiano distribuisce a tutta la popolazione del veleno, per potersi dare la morte se lo desiderano.
Il dottor Osborne, procuratasi una vecchia Ferrari da corsa, propone un surreale, folle “Gran Premio d’Australia”, al quale tutti partecipano sfrenatamente e senza il minimo rispetto per le norme di sicurezza (una trasparente metafora della corsa agli armamenti nucleari).
La corsa è un evento agghiacciante, a dir poco. Tutti i partecipanti muoiono per incidenti vari. Unico sopravvissuto, e soddisfatto vincitore, è proprio Osborne, che appone sul cofano della sua auto la targa di una vittoria che nessuno sarà lì a ricordare nel futuro. Si chiude poi in garage, e si suicida coi gas di scarico del motore.
Towers e il suo equipaggio decidono di tornare negli Stati Uniti per morire nel proprio paese. A Melbourne si organizzano veglie di preghiera. La moglie di Holmes, ormai rassegnata, prende la sua dose di veleno.
Le ultime sequenze mostrano San Francisco, ormai una città morta, e le strade deserte di Melbourne dove sventola uno striscione con la scritta “There is still time Brother” ovvero “C’è ancora tempo fratello” per pentirsi – si sottintende – ma il cartello assume un amaro, ironico significato: di tempo ormai non ce n’è più, per nessuno.
Di lì a pochissimi anni, nell’ottobre 1962, con la crisi dei missili cubani, il mondo si trovò a dover fronteggiare non gli scenari ipotetici di un romanzo o di un film, ma la concreta paurosa minaccia di una apocalisse nucleare innescata da USA e URSS.
Come un grande uomo di stato ebbe a dire nei primi anni ’50, l’invenzione dell’arma di distruzione totale la rese automaticamente, e paradossalmente, l’unica arma a non poter essere usata: chi l’avesse fatto, avrebbe fatalmente innescato la reazione a catena che avrebbe portato all’annientamento globale. Una realtà talmente ovvia e lampante che fino ad oggi nessun governo, per quanto guerrafondaio e senza scrupoli, ha osato farne uso.
Ribadisco “fino ad oggi”, perché pare che dopotutto ci sia al mondo chi pensa di poter mostrare i muscoli senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Chissà se visionare “L’ultima spiaggia” non servirebbe anche a questi sciagurati.
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26 agosto 2017
26 agosto 2017 at 18:41
Che bel post hai scritto! È un film che voglio vedere mi pare di non averlo visto, sebbene ne abbia visto tantissimi di quel periodo e di Kramer. Concordo con la tua chiusa.
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26 agosto 2017 at 19:44
Grazie! Sì te lo consiglio, per quanto – come avrai ben capito – il finale consolatorio è fuori discussione. Tratterò altre pellicole “disperate”, è un filone interessante.
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