Questo capolavoro è tratto dal romanzo di un finissimo scrittore di fantascienza, Philip Dick. Il regista Ridley Scott ne ha fatto un cult movie: una pellicola che ha fatto scuola, e trascende il mero genere fantascientifico per virtù di stile.
Come si sa, la vicenda è collocata in una Los Angeles del futuro (2019). Come il resto del pianeta, la città è resa pressochè invivibile dall’alto tasso di inquinamento, che ha fatto quasi del tutto scomparire dalla Terra la vita animale e vegetale. Il cielo è costantemente coperto da una coltre di smog e nuvole, piove quasi in continuazione, e gli unici abitanti rimasti sono quelli che per mancanza di mezzi, o per altri motivi personali, non sono emigrati sulle colonie che la razza umana ha creato su altri pianeti.
L’ambientazione che Scott allestisce è angosciosa: colori cupi e plumbei, scenografie che spaziano da soluzioni avveniristiche ad architetture vagamente assiro-babilonesi.
Una società variegata e per noi incomprensibile, dove creare occhi per i replicanti e produrre animali artificiali sono professioni comuni.
Anche la pubblicità incute sgomento: la geisha dal sorriso stereotipato che mangia chissà quale delicatezza culinaria, mentre una voce stentorea declama lo spot in una lingua incomprensibile; la sempiterna e immutata insegna della Coca-Cola, che proprio per esserci familiare sembra ancora più bizzarra, inserita in un contesto così alieno; la voce che a intervalli continua a magnificare i vantaggi di vivere nelle colonie extra-mondo.
In questo scenario, i replicanti si inseriscono come parte integrante ed essenziale. Non si potrebbe fare a meno di loro, e in effetti vengono programmati alla “nascita” come schiavi per svolgere compiti ben definiti: “Modello base di piacere” per i circoli ricreativi degli ufficiali; “Modello base da combattimento”; e così via. Dove “modello base” ci fa intuire che evidentemente ci sono modelli più avanzati (ovvio il richiamo ad Aldous Huxley, e agli esseri umani programmati in provetta de “Il Mondo Nuovo”). Notate la “inception date” dei protagonisti della storia… 2016, 2017… ci siamo arrivati! Ma la nostra società è ben lungi dall’essere simile a quella del film.

Una nota linguistica: “inception date” significa letteralmente “data di inizio”, ed è normalmente utilizzata per indicare l’inizio della vita utile di una macchinario in un inventario cespiti, oppure è la data di inserimento di un ordine in un sistema aziendale. A dispetto del fatto di possedere intelligenza e memoria, i replicanti sono considerati macchine a tutti gli effetti.
Tuttavia, poiché i genetisti della Tyrell (che ha il monopolio della produzione di replicanti) hanno notato l’insorgere di sentimenti e reazioni emotive in queste creature, essi sono stati dotati di un dispositivo limitante: la loro vita è di soli quattro anni.

Non è il caso di commentare qui il film nella sua interezza: Blade Runner è una delle pellicole più dibattute e famose della recente storia del cinema, per le molteplici tematiche che tocca, per le scelte stilistiche, per il tipo di società distopica che propone e le sue implicazioni. Soffermandoci sul solo modello di essere artificiale che viene proposto, vale la pena di considerare alcuni aspetti veramente notevoli.
Forse per la primissima volta il cinema ci propone degli esseri artificiali in tutto simili a noi (lo slogan della Tyrell è più umano dell’umano). Nel plot, i miracoli dell’ingegneria genetica sono arrivati a tanto, purtuttavia nessuno considera queste creature come esseri umani veri e propri: sono nati per servire, e per durare poco, per poi essere “terminati”, come recita il crudo linguaggio burocratico.
In soli quattro anni di vita, un replicante non è in grado di sviluppare una esperienza di vita sufficiente ad avere una normale risposta emozionale. Quindi il modo per distinguere un essere umano da un replicante è di sottoporlo ad un interrogatorio, il cosiddetto Voight-Kampff test, dove le domande sono mirate ad ottenere una forte reazione emotiva.
Ho trovato questo particolare molto drammatico e commovente. La pellicola ci propone due interrogatori propriamente detti (a Leon e Rachel) ed una conversazione rivelatrice (tra Deckard-Harrison Ford e Rachel-Sean Young). In tutti i casi, i poveri replicanti cercano di tenere testa alle domande e di spacciarsi per umani – quali in effetti si sentono – ma falliscono miseramente. Leon reagisce in modo violento, Rachel con disperazione.
Non si può fare a meno di sentirsi solidali con queste creature, troppo intelligenti per non rendersi conto della loro situazione, ma allo stesso tempo impotenti a controllare la propria vita: disperatamente in cerca di sapere quanto tempo resta loro, e di prolungare la loro breve esistenza. Alla fine Roy, il replicante più carismatico del gruppetto, ed apparentemente privo di sentimenti, grazierà della vita il suo cacciatore Deckard, dimostrandosi così più umano di lui.
Il tema di Blade Runner è quello centrale di molti racconti di fantascienza: cosa è umano?
Il film cerca di rispondere ponendo una domanda cruciale: i replicanti hanno un’anima? Il regista Ridley Scott (che, abbastanza insolitamente, si prese in carico anche l’ “art department” del film, per essere sicuro che tutto fosse come voleva lui) utilizzò a tale scopo gli occhi come elemento portante della domanda, e delle sue possibili risposte. Probabilmente, perché gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Il film inizia con una sequenza del cupo panorama cittadino riflesso in un occhio, di non si sa bene chi: forse il replicante Roy, forse Deckard stesso, che potrebbe essere a sua volta un replicante.
Incontriamo poi un Blade Runner sotto copertura, che presso la sede della Tyrell sottopone il replicante Leon al test Voight-Kampff, basato sulla verifica della dilatazione della pupilla. In pratica, il macchinario del test guarda attraverso gli occhi per trovare l’anima.
Successivamente Roy, il capo carismatico del gruppetto di replicanti fuggito dalle colonie extra-mondo, si trova in un negozio dove si creano occhi per replicanti. Al proprietario Chew dice “Se solo tu potessi vedere quello che io ho visto con i tuoi occhi.”
I replicanti si riconoscono anche dal riflesso rossastro che le loro iridi assumono, se viste da un certo angolo.

Roy uccide il suo creatore Tyrell cavandogli gli occhi con le mani nude. Questa scena violenta, che nella prima versione del film non venne mostrata per intero, non è fine a se stessa ma funzionale al tema centrale.
Malgrado il film non giunga ad una conclusione diretta, in complesso pare suggerire che sì, i replicanti hanno un’anima. E’ interessante notare che il racconto di Philip Dick punta in direzione diametralmente opposta. Lo scrittore descrive i suoi androidi come “meno che umani, deplorevoli, egoisti, incapaci di provare empatia”. Quando Dick e Scott si incontrarono verso la fine delle riprese del film, fu questo l’argomento che dibatterono più a lungo.
Per altri articoli sugli esseri artificiali si rimanda alla pagina Cinema.
16 ottobre 2017
16 ottobre 2017 at 14:36
Il tema universale che fa di Bladerunner una pellicola classica è che, sottrattane la sovrastruttura fantascientifica, Bladerunner parla dei “diversi”. Bladerunner è stato a mio avviso il “Freaks” degli anni 80. In questo simile anche a pellicole come “Elephant man” quasi coevo e che usa invece il film in costume come registro portante del messaggio. Il resto di Bladerunner è comunque una “sovrastruttura” molto piacevole ed ancora oggi valida. Vedi il sequel che pur non aggiungendo nulla alla sostanza , ne è abbastanza rispettoso… non solo nella scenografia ma anche nel montaggio e nell’ uso del sonoro.
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16 ottobre 2017 at 15:24
E’ una lettura interessante. Pur essendo Freaks uno dei “miei” film classici (ne ho anche fatto un articolo –> https://fezzweb.wordpress.com/2017/01/05/freaks/ ) non ho mai pensato di associarlo al tema portante di Blade Runner. Potresti avere ragione… ci medito su e poi ne parliamo.
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