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Erano gli anni ’70 quando la rivista Linus, allora già in formato pocket, cominciò a pubblicare a puntate un fumetto che mi colpì enormemente. Erano dispense staccabili, in bianco e nero, e narravano la storia della Shoah dalla prospettiva di un sopravvissuto. Anzi, per essere precisi, la storia la narrava il figlio del sopravvissuto, un fumettista e giornalista statunitense che cercava di mettere insieme i pezzi della sua vicenda familiare e del pesante passato dei suoi genitori.

Pur ragazzina com’ero, mi impressionarono vivamente l’originalità del taglio narrativo, e le scelte grafiche e illustrative dell’autore. Il disegno era infatti volutamente sgranato, quasi primitivo, anche se si intuiva che il disegnatore era estremamente abile. Inoltre i personaggi, anche se indubbiamente antropomorfi, avevano teste di animali, e questi animali li qualificavano senza possibilità di dubbio all’interno del plot. Gli ebrei erano topi (da cui il titolo del libro, infatti Maus è topo in tedesco), i nazisti gatti. Maiali i polacchi, rane i francesi, e così via. Quando il protagonista, ebreo, finge di essere polacco per salvarsi, mette una maschera da maiale sul suo muso da topo.

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Questo espediente narrativo era assolutamente nuovo per l’epoca: l’umanizzazione degli animali era naturalmente già assai comune nei fumetti e nei cartoni animati, ma in un contesto completamente diverso. Qua eravamo ad un altro livello, e mi resi subito conto che la scelta dell’autore era stata geniale: nessun volto umano avrebbe potuto rendere in maniera così netta l’identificazione dei personaggi con il loro destino nella storia (anzi, nella Storia).

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Si trattava di Maus, di Art Spiegelman, e allora non sapevo che si trattava di un capolavoro acclamato, che avrebbe vinto il premio Pulitzer nel 1992, il primo mai assegnato ad un’opera a fumetti. Per molti anni cercai di procurarmi il volume intero senza riuscirci (non erano ancora tempi di Amazon e internet) fino a che divenne facilmente accessibile sia in lingua originale che nella traduzione italiana.

In Maus, Art Spiegelman ha messo in gioco tutto se stesso, la sua vita, le sue aspirazioni, e dopo aver speso due anni a elaborare quest’opera così personale e dolorosa, per molto tempo non è più riuscito a scrivere una riga o disegnare un fumetto.

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Il libro è articolato su tre linee narrative, che si intrecciano in modo così fluido e avvincente da non far avvertire per nulla lo stacco al lettore.
– l’autore Art Spiegelman che racconta la storia di suo padre Vladek, un ebreo polacco sopravvissuto alla Shoah
– Vladek mentre racconta la propria storia durante la seconda guerra mondiale
– Vladek al tempo presente del libro, mentre racconta le proprie vicende al figlio, col quale ha un rapporto conflittuale.

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E’ estremamente interessante anche l’aspetto linguistico: nella versione originale, Vladek Spiegelman racconta le sue vicende al figlio in un inglese che è evidentemente costruito sulla struttura linguistica del polacco. E’ inoltre colorito da molte parole in yiddish, la lingua parlata dagli ebrei dell’Europa centrale, e i cui termini molto coloriti ed espressivi sono oggi patrimonio comune del parlato newyorkese (qualunque abitante della Grande Mela usa normalmente termini yiddish come bagel, meshugga, yenta).
Quando però la narrazione si sposta nella Polonia degli anni ’30 e ’40, l’inglese di Vladek è assolutamente fluido e corretto, dato che l’autore voleva indicare che il padre si esprimeva nella sua lingua madre.
Va reso onore al traduttore italiano, che ha dovuto scontrarsi con molte difficoltà per rendere al meglio possibile questo contrasto.

Ricordo ancora perfettamente come mi catturò l’incipit del libro. In due paginette, un suo ricordo di bambino, l’autore riuscì a introdurre l’argomento, a qualificare in  modo superbo il carattere del padre e il suo contesto familiare, e ad anticipare il libro che avrebbe scritto da adulto e la sua genesi.

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Maus non è un fumetto, non solo: è un vero libro di Storia, che per essere un fenomeno collettivo non è per questo meno individuale e doloroso per i protagonisti. E’ un libro da leggere e rileggere.
Riporto qui il commento che ne diede il grande Umberto Eco: “Maus è una storia splendida. Ti prende e non ti lascia più. Quando due di questi topolini parlano d’amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi da un ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico.”

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Art Spiegelman seduto davanti a un murale che ritrae uno dei protagonisti di Maus

Luisa Fezzardini, 25 dicembre 2017