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Il velista vagabondo: Bernard Moitessier

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Siamo a largo di Città del Capo, in un assolato pomeriggio del marzo 1969. Un marinaio al lavoro su un cargo britannico sta camminando sul ponte quando si accorge  che una imbarcazione a vela, per la verità abbastanza malandata, si è appena affiancata. In coperta vi è un uomo trasandato, con la barba lunga, che lo sta puntando con una fionda. Il proiettile parte, atterra sul cargo. Nel frattempo la vela si allontana, indifferente. Incuriosito, il marinaio svolge il fagotto, che contiene un breve messaggio. La firma lo fa sussultare. Alza la testa per osservare lo strano personaggio che glielo ha lanciato, che però è già lontano. Il messaggio recita: “Continuo senza scalo verso le isole del Pacifico perché sono felice in mare, e forse anche per salvare la mia anima”. La firma è di Bernard Moitessier, l’uomo in testa alla Golden Globe Race, la competizione partita da Plymouth quasi un anno prima che prevedeva la circumnavigazione del globo in solitaria e senza scalo. Questa volontaria rinuncia, incomprensibile ai più, è il gesto forse più eclatante di Moitessier, quello che lo farà ricordare meglio e più a lungo, il compendio di una vita e una personalità uniche e non facili.

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In pochi riescono a riunire in sé autorevolezza tecnica e aspirazione all’evasione totale dalla vita quotidiana e dai clamori della cronaca. Bernard Moitessier è senz’altro uno di quelli. Per riassumere la sua vita e le sue imprese credo non basterebbero tre biografie. Quello che qua mi interessa approfondire sono le ragioni più profonde del suo carattere: schivo, ma curioso; portato alla solitudine e alla introspezione, ma allo stesso tempo anche alle grandi imprese, quelle che fanno parlare di sè il mondo; alieno dai contatti umani, ma grande comunicatore con la parola scritta.

La sua storia personale e velica sono alla portata di chiunque abbia accesso a internet. Cito soltanto alcuni eventi chiave. Francese nato all’estero (Hanoi), Moitiesser è a buon diritto parte di quella schiera di gallici detti “pieds-noirs” (letteralmente “piedi neri”) ovvero i cittadini francesi nati perlopiù in Algeria, ma comunque all’estero. Francesi quindi, certo, ma con radici e retroterra culturale più esotici e con esperienze più articolate.
Attirato dal mare fin da bambino, comincia la sua carriera di vagabondo già a 22 anni, solcando il Golfo del Siam con una giunca. Si imbarca su un vecchio ketch che però deve ben presto abbandonare perché troppo danneggiato. Negli anni successivi ogni suo sforzo, ogni lavoro precario che intraprende è unicamente teso alla costruzione di una sua barca, cosa che gli riesce un paio di volte, ma solo per perderla quasi immediatamente per incidenti vari di navigazione.

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Nel 1952 Moitessier salpa da Singapore con la giunca Marie Therèse, affrontando in solitaria il Monsone dell’Oceano Indiano, e portando la barca a incagliarsi, a causa di un errore di carteggio, sugli scogli nelle isole Chagos.
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Nelle Isole Mauritius Moitessier si guadagnò da vivere, alternando diversi lavori, come la pesca subacquea e il lavoro di segretario per il console di Francia, riuscendo infine a costruire il Marie Therèse II, con cui risalì l’Atlantico fino a Trinidad, dopo una sosta per qualche tempo in Sudafrica, da dove ripartì in compagnia di un suo grande amico, Henry Wakelam. Nel mar delle Antille Moitessier, per un colpo di sonno, perse anche questa barca.

Si sposa con una donna che gli porta tre figli di un matrimonio precedente, ma che sembra tuttavia più che disposta ad assecondare il suo amore per il mare. Il loro viaggio di nozze verso la Polinesia si trasforma in una straordinaria impresa velica, la Tahiti – Alicante via Capo Horn per un totale di 14mila miglia senza scalo.

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Bernard Moitessier con la moglie Françoise de Cazalet

Comincia intanto la sua parallela carriera di scrittore, appassionato e appassionante. I suoi libri, incentrati sulle sue esperienze per i mari, sono avvincenti come romanzi, e anche di più perché raccontano vita vissuta.

Nella seconda metà degli anni ’60 Moitessier sta progettando una impresa estremamente ambiziosa: la circumnavigazione del pianeta senza scalo, passando per i tre capi: Buona Speranza, Leeuwin, e Horn. Ma gli serve una barca, e con l’aiuto di sponsor convinti del suo valore comincia a lavorare al Joshua (in onore del grande navigatore Joshua Slocum), una barca d’acciaio, un robusto ketch armato con due pali telegrafici, con cui impartì lezioni di vela d’altura nel Mar Mediterraneo. Ne fece disegnare il progetto da Jean Knocker, dietro suoi suggerimenti, e l’industriale Fricaud gli mise a disposizione le attrezzature per la costruzione.

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Proprio mentre stava organizzando il suo ambizioso viaggio, venne indetta dal Sunday Times nel 1968 la prima regata intorno al mondo in solitario, la Golden Globe Race, con partenza da un qualsiasi porto inglese e ritorno dopo aver passato i tre capi.

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Moitessier, titubante per il rischio di declassare una impresa eroica a semplice competizione sportiva, vista la posta in palio (cinquemila sterline) accettò e decise di partire da Plymouth il 22 agosto 1968. Dopo aver doppiato i tre capi e superato Robin Knox-Johnston che era partito con circa un mese di anticipo ed era sempre stato primo, con grande stupore del mondo intero annunciò di non voler ritornare in Europa, abbandonando così la gara e il premio a vittoria praticamente sicura. Per un uomo così introverso e schivo, l’idea di dover affrontare la notorietà, i giornalisti, il clamore della vittoria, risultò evidentemente più di ciò che era disposto a sopportare, specie dopo svariati mesi di navigazione in solitario, a tu per tu con una natura spesso ostile e spietata.

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Moitessier nel 1968

Il Golden Globe sarà vinto da Robin Knox-Johnston, che però devolse l’intera somma alla famiglia di Donald Crowhurst, altro partecipante alla competizione che sparì in circostanze mai chiarite, e molto probabilmente di sua volontà (per altri dettagli vedi il mio articolo Il velista gentiluomo: Robin Knox-Johnston).

Lasciando moglie e famiglia ad attenderlo inutilmente in Francia, Moitessier proseguì quindi la rotta meridionale superando per la seconda volta il Capo di Buona Speranza, e percorse un altro mezzo giro del mondo senza scalo, fino a raggiungere Tahiti il 21 giugno 1969 dopo aver percorso oltre 69mila chilometri.

La storia della celebre impresa si trova narrata nel suo libro più famoso, “La lunga rotta”, uno dei libri di mare più apprezzati e più letti al mondo, che ha fatto di lui un modello per intere generazioni di velisti. Memorabile il suo rapporto con la barca, con la quale aveva fatto un patto: “dammi vento e ti darò miglia”.

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Il motto di Joshua: “Tutto ciò che gli uomini hanno fatto di bello e di buono, l’hanno costruito con i loro sogni”

A Tahiti Moitessier trovò un’altra compagna, Ileana, con la quale ebbe l’unico figlio Stephan. Altre imprese veliche seguirono, corredate da altri disastrosi naufragi e vicende di ogni tipo. In cerca di sempre più isolamento, si trasferì in uno sperduto atollo delle isole Tuamotu, dedicando i suoi ultimi anni alla lotta in favore dell’ambiente e del disarmo nucleare. Tornato in Francia per curare il tumore che poi lo portò alla tomba, ebbe un’ultima compagna, Véronique, che gli stette accanto fino alla morte nel 1994.

Che conclusioni trarre da una vita come questa, da un uomo come questo? Moitessier non temeva nulla, se non forse l’essere sotto i riflettori. Il suo indubbio talento comunicativo non poteva che manifestarsi tramite la parola scritta, senza un contatto personale e verbale, dal quale rifuggì per tutta la sua esistenza. Anche le varie compagne che ebbe non riuscirono a trattenerlo a lungo. Per tutta la vita Moitessier si mise alla prova, sfidando gli elementi con le sue sole forze, ma forse e soprattutto sfidando se stesso. Se abbandonò la Golden Globe Race, fu – secondo me – perché la sua competizione l’aveva già vinta: non contro gli altri concorrenti, non contro l’oceano e le sue insidie, ma contro la sua stessa anima.

per altri articoli correlati, vedi la pagina Vela & Mare

Luisa Fezzardini, 12 gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

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