Probabilmente quando si parla di Albert Einstein la parola “marinaio” non è la prima che viene in mente. Tuttavia, Einstein amava navigare ed elaborò i germi di alcune delle sue opere più importanti proprio durante le sue uscite in barca a vela.
Imparò a veleggiare diciottenne sul lago di Zurigo, quando era ancora uno studente. Nel 1929 per il suo cinquantesimo compleanno un gruppo di ammiratori, incluso il banchiere statunitense Henry Goldman, gli fece costruire una barca a vela.

La barca venne chiamata Tümmler (focena in tedesco), uno sloop di sette metri. Non appena aveva tempo, Einstein lasciava Berlino per la sua casa di campagna in riva al lago, vicino a Potsdam, e usciva in barca per ore reggendo la barra del timone, mentre il vento lo trascinava qua e là.
Einstein riuscì a godersi il Tümmler per poco. Nell’ottobre del 1933, con l’intensificarsi delle persecuzioni anti-semite, decise di emigrare negli Stati Uniti. E’ a tale viaggio, dal quale non doveva più fare ritorno in Europa, che risale un suo gesto rimasto famoso: nei documenti di espatrio, alla domanda “Indicare la razza” (dove evidentemente si intendeva “ariana” o “ebraica”), scrisse “umana”.
Il governo nazionalsocialista confiscò tutti i suoi beni in Germania, compreso il Tümmler. Più che per il suo effettivo valore l’imbarcazione venne sequestrata come ritorsione verso il grande scienziato, tanto è vero che venne messa in vendita già nel gennaio del 1934, dato che la Gestapo non sapeva come utilizzarla. Una nota bizzarra: per correttezza verso l’integrità dei probi cittadini del Reich, il bando di vendita avvertiva che “l’imbarcazione è appartenuta ad un nemico pubblico”. Nel 1945, a guerra finita, Einstein cercò di recuperare i suoi beni in Germania, compresa la barca, ma ormai se ne erano perse completamente le tracce.

Una volta sistematosi negli Stati Uniti riprese a navigare. Si era stabilito a Princeton, nel New Jersey, dove insegnava nella prestigiosa università e proseguiva nelle sue ricerche. Lì acquistò un 17 piedi che chiamò Tinnef (che in yiddish significa una cosa infima, da quattro soldi) col quale veleggiava sul lago Carnegie. Nell’estate del 1935 affittò una casa a Old Lyme e si portò dietro il Tinnef che portava sul fiume Connecticut e lungo la costa. Nelle estati successive veleggiò sul lago Saranac, negli Adirondacks.

Amici e biografi sono concordi nel definirlo un marinaio mediocre. Rischiò spesso collisioni con altre imbarcazioni, e qualche volta si trovò a malpartito per le avverse condizioni meteo, ma riuscì sempre a tornare in porto sano e salvo e con la barca integra (il che è più di quanto si possa dire di diversi velisti più esperti…). Non era quindi quello che si definirebbe un bravo marinaio, ma – come per tanti – la solitudine gli serviva a concentrarsi coi suoi pensieri. In realtà era un grande amante della natura, e affrontare in barca il clima avverso invece di spaventarlo lo riempiva di entusiasmo ed energia.
Abbastanza stranamente, Einstein non imparò mai a nuotare. Dato poi che non sopportava di indossare il giubbotto di salvataggio, ogni volta che usciva in barca la famiglia rimaneva in comprensibile ansia fino al suo ritorno. Nonostante ciò, era completamente indifferente ai rischi che correva durante la navigazione. Nel 1944 il Tinnef si capovolse, e una cima che gli si era avvolta intorno a una gamba lo tenne sott’acqua per diverso tempo. Tuttavia riuscì a riemergere da solo, e venne salvato da un motoscafo di passaggio. Dopo aver recuperato la barca, continuò a navigare senza dar segno di aver sofferto dell’esperienza.
Quando poi si insabbiò durante una navigazione sul fiume i quotidiani lo presero in giro, ma in modo affettuoso e bonario, dato che era una personalità molto amata dal grande pubblico, non tanto per il suo indiscutibile genio, quanto per il suo anticonformismo e la sua assoluta indifferenza per le convenzioni sociali. Il New York Times titolò: “La marea ‘relativa’ e i banchi di sabbia intrappolano Einstein”. Un altro quotidiano scrisse: “Einstein sbaglia i calcoli e si incaglia nel fiume Connecticut”.
Johanna Fantova, una bibliotecaria dell’università di Princeton che andò spesso in barca con lui, scrisse: “La salute di Einstein cominciò a vacillare, ma lui continuò a praticare il suo hobby preferito, la vela. Anche lì la sua precisione analitica lo aiutava a calcolare all’istante anche il minimo movimento dell’aria, anche in giornate praticamente senza vento. Raramente l’ho visto così felice e di buon umore come quando era su quella sua minuscola barchetta senza pretese.”
Quindi, Einstein era davvero un pessimo marinaio? Chissà! Del resto, da ragazzo era stato considerato anche un pessimo studente, e spesso non riuscì a superare esami e qualificazioni. Quando il padre chiese al preside del liceo che frequentava che professione avrebbe potuto intraprendere, questi rispose: “Non ha importanza. Non avrà successo in niente.” Qualunque sia la verità, l’immagine di Einstein che durante la bonaccia prendeva note con carta e matita (che sempre portava con sè in navigazione) è affascinante. Che luogo migliore di una piccola barca a vela, sotto la cupola del cielo, per ponderare sui misteri dell’universo?
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Luisa Fezzardini, 17 marzo 2019
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