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Quando si parla di seconda guerra mondiale si pensa automaticamente al centro Europa. Eppure, gran parte del conflitto si combattè in estremo oriente, in Africa, e nell’Europa dell’est. Questo memorabile film del 1957 si fa ricordare per la tematica di fondo (l’assurdità della guerra), la superba interpetazione di tutti i protagonisti a cominciare dal grande Alec Guinness, e per il celeberrimo motivo musicale (la “Colonel Bogey March”) che ancora oggi è difficile che qualcuno non conosca.

Malesia, seconda guerra mondiale. In un campo di prigionia giapponese arriva il colonnello Nicholson (Guinness), tutto d’un pezzo sia come uomo che come militare. Dopo gli iniziali scontri col comandante del campo, il colonnello Saito, per questioni di principio, Nicholson accetta di far lavorare i suoi uomini alla costruzione di un ponte. Lo fa per dimostrare la superiorità britannica, ma sotto sotto più per se stesso, per un malinteso senso di egotismo e presunzione. Gli uomini gli vanno dietro pensando abbia un piano per sabotare il nemico.

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Nicholson si immedesima nel suo orgoglioso puntiglio, al punto che quando un militare americano (William Holden), fuggito dal campo, vi ritorna per sabotare il ponte all’inaugurazione, quando le truppe nipponiche lo avrebbero attraversato in massa, cerca di sventare l’attentato per salvare il “suo” ponte.

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Solo quando vede morire i soldati alleati del commando ritorna in sè, e si rende conto che in effetti stava collaborando col nemico. A quel punto, colto da raccapriccio, dice a se stesso con angoscia “Cosa ho fatto!”

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Colpito da un proiettile, si accascia (per caso? apposta?) sulla carica di esplosivo che farà saltare il ponte. Le ultime parole pronunciate nel film, e l’accusa più cruda contro l’inutile spreco di vite umane – alleate, del nemico, tutte – sono del maggiore medico Clipton, che dopo aver assistito impotente a tanta dissennata violenza e assurdi comportamenti, mormora sgomento: “Pazzia, pazzia!” (Madness, madness!)

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Siamo ancora lontani dal bellissimo “Lettere da Iwo Jima” di Eastwood, e anche da “Furyo”. I giapponesi sono i cattivi, senza se e senza ma. Ma chi c’è dalla parte dei buoni? Il colonnello Nicholson, magistralmente interpretato da Guinness (premiato con l’Oscar) è il prototipo del britannico imperialista, spocchioso e con un fortissimo senso di superiorità. Nonostante sia un militare integerrimo, cade nella trappola di una assurda presunzione, fino al punto di tradire inconsapevolmente la stessa nazione per la quale prova tanto fanatico attaccamento.

Va detto che il regista David Lean portò all’estremo il carattere di Nicholson appunto per dimostrare la sua tesi anti-militarista: nella realtà, come dichiarò senza mezzi termini un reduce di quei campi giapponesi durante il programma della BBC Timewatch, un ufficiale che si fosse comportato come l’immaginario Nicholson sarebbe stato “tranquillamente eliminato” (sic) dagli altri prigionieri.

Oltre a Guinness e a Holden, è doveroso ricordare la grande interpretazione di Sessue Hayakawa, che impersonava il colonnello giapponese Saito: grande attore di teatro e famoso sul grande schermo a livello internazionale, la sua incisiva interpretazione gli valse una nomination all’Oscar come migliore attore non protagonista, e al Golden Globe.

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Una piccola curiosità: il celebre ponte non venne ricreato in studio ma dal vero, nell’isola di Ceylon. Secondo il produttore Spiegel: “L’autenticità è necessaria per trasmettere l’intera esperienza emotiva di una storia. La ricostruzione in uno studio cinematografico non provocherebbe, nel pubblico, la stessa reazione emotiva”. Il legno che serviva per costruire il ponte fu trasportato da 100 elefanti.

In questo breve video, il famosissimo tema del film.

Luisa Fezzardini, 9 giugno 2019