So che con questo articolo mi alienerò gran parte della mia manciata di lettori, ma insomma, non si può piacere a tutti.

Quando si avvicina il Giorno della Memoria vengono tirati fuori a proposito e a sproposito citazioni, spezzoni di film, testimonianze relative ai lager nazisti. Inevitabile che anche “La vita è bella” di Benigni passi in tv e venga citato, osannato, riverito, con centinaia di commenti con faccine in lacrime, pollici su, insomma tutto il repertorio che normalmente si riserva a quei libri, film, personaggi, sui quali il consenso è pressoché unanime.

In questo caso credo proprio che la popolarità del regista, unita all’ansia quasi generale di far capire che si è contro i lager e il nazismo (e ci mancherebbe), faccia perdere di vista che il film in questione è una stortura, quasi un’offesa alla Shoah più che un omaggio.

E’ una stortura perché deforma la verità storica per presentare una bella fiaba edificante, fatta apposta per strappare la lacrima e l’approvazione. Impensabile che in un lager un prigioniero potesse comportarsi come Benigni fa nel film, per alimentare nel figlioletto l’idea che stiano partecipando ad un gioco a premi: per esempio, distorcendo in modo buffonesco la traduzione delle parole del comandante del campo, o facendo partecipare con un trucco il suo bambino ad una festa riservata ai figli degli ufficiali tedeschi del campo.

Si obietterà che “E’ un’opera artistica, non deve essere verosimile” “Benigni è un poeta” (anche su questo avrei qualcosa da dire), etc. Non pretendo che un film diventi un documentario, ma non può nemmeno diventare una scandalosa parodia della realtà, di quella realtà.

Ciò che c’è di fastidioso in questa presentazione, non solo dei campi di sterminio, ma anche della parte precedente, la vita di tutti i giorni per gli ebrei d’Europa, è l’idea che se davvero lo si voleva, se ci si metteva di impegno, se si amavano abbastanza i propri figli, se si aveva fantasia, si poteva preservare i piccoli dall’orrore, così come Benigni fa nel film.

Non è così!! Chi può pensare che, potendo, i padri e le madri che persero i figli e morirono essi stessi, non avrebbero fatto qualunque cosa (e spesso fecero l’impensabile) per evitare a quegli innocenti tanta barbarie? Semplicemente, non era possibile, perché quei luoghi erano stati concepiti per disumanizzare prima e uccidere poi uomini e donne, vecchi e bambini, senza alcuna eccezione e senza alcuna pietà.

Basta visitare uno di quei luoghi per rendersene conto. Se non si può o vuole, basta leggere un libro qualunque, magari “Se questo è un uomo” del nostro Primo Levi. Se non si può o vuole, basta guardare un documentario sull’argomento. E se anche questo è troppo oneroso rispetto al commuoversi con una bella favoletta, si possono guardare film più edificanti (nel vero senso del termine) su padri e figli nei lager, come “Il figlio di Saul” (2015, László Nemes): questo sì un film autentico, e forse proprio per questo in Italia è girato poco.

A chi commenta che “La vita è bella” è una storia un po’ fiabesca, ma tutto serve pur di portare alla ribalta la consapevolezza, obietto che no: questo è un argomento (non certo il solo) sul quale romanzare, ricamare, abbellire, favoleggiare, proprio non si può e non si deve. Specie in tempi come questi, dove concetti che sembravano assodati vengono rimessi in discussione in modo abietto e vergognoso (come continuano a confermare recenti fatti di cronaca, l’ultima di qualche giorno fa con protagonisti addirittura dei ragazzini).

So che voci anche autorevoli si sono espresse a favore di questa pellicola, e che voci altrettanto autorevoli ne hanno dato di contro un giudizio molto negativo. Non voglio schierarmi, e non ne ho bisogno: esprimero l’effetto che il film ha fatto a me. Dico questo per prevenire obiezioni del tipo “Sì, ma tizio, un sopravvissuto, ne ha detto un gran bene”, oppure “Caio, premio Nobel per la letteratura, ha detto che gli è piaciuto”.

Luisa Fezzardini, 27 gennaio 2022