Beninteso, Ernest Hemingway non era famoso per il suo bel carattere, anzi. Per tutta la sua vita cercò esperienze estreme, quasi corteggiando la morte. Riportò diversi gravissimi incidenti che misero più di una volta a rischio la sua vita. Ebbe innumerevoli incontri, amori, odi radicati come amori. Conobbe già in vita una non comune notorietà che lo elesse ad icona di una intera generazione (che lui stesso chiamò “la generazione perduta”). Fu giornalista, inviato di guerra, scrittore. Vinse il premio Pulitzer e il Nobel per la letteratura.

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Hemingway durante uno dei suoi due lunghi soggiorni in Africa, negli anni ’30 e ’50. In entrambe le circostanze fu vittima di gravi incidenti.

La gravissima depressione, che punteggiò la sua vita come un trama nera sullo sfondo di un’esistenza frenetica e brillante, ebbe alla fine la meglio e lo portò al suicidio a 62 anni. Fu quindi lui stesso a mettere fine a ciò che chiamava “la faccenda” – ovvero la vita. “A me non importava di sapere cosa fosse tutta la faccenda – dice a un certo punto Jake Barnes, protagonista del suo primo romanzo FiestaM’importava di sapere come vivere, nella faccenda. Forse però se scoprivate come viverci potevate anche capire cosa l’intera faccenda fosse”.

Da un uomo simile non ci si può aspettare che coltivasse pazienza e tolleranza verso i suoi simili, e men che meno verso chi osava mettere mano alle sue opere. Fu così che quando l’editore britannico Jonathan Cape osò rimaneggiare Morte nel pomeriggio (“Death in the Afternoon”), la rabbia dello scrittore esplose senza freni. Cape aveva pensato bene di smorzare il tono volutamente crudo e gergale di Hemingway per allinearlo alla stantìa morale dell’epoca: “andate a farvi fottere” era stato sostituito da “andate a farvi impiccare”. “Fottuto” era stato cambiato in “blast” (esplosione). Le parole “bastardo” e “carogna” erano state cassate senza pietà.

In una lettera del 19 novembre 1932, i cui toni violenti non sono molto dissimili da quelli che l’editore aveva censurato nel libro, Hemingway scrisse: “Con le censure avete rovinato il mio libro. Sarò io a prendere la mia maledetta decisione, su cosa voglio e non voglio scrivere. Non ho alcuna intenzione di vedere il mio libro sciupato da mani ignote. Tutto il piacere che avevo di pubblicare il mio libro in Inghilterra è svanito a causa della sua lettera dello scorso 3 novembre. Non capisce che se un taglio o cambiamento deve essere fatto, sono io a doverlo decidere, se non vuole che il libro venga rovinato?” “Se vuole pubblicare altri miei libri – prosegue la lettera – è necessario che Lei capisca questo molto chiaramente: Lei non è il mio vicario. Se il Papa è il Vicario di Cristo, è perché nostro Signore non si trova qui sulla Terra per prendere di persona le sue decisioni. Io non sono ovviamente Cristo, ma finché sono qui sulla Terra prenderò io stesso le mie decisioni su cosa voglio e non voglio scrivere”.

In Italia Morte nel pomeriggio fu pubblicato da Einaudi nel 1947 nella impeccabile traduzione di Fernanda Pivano, profonda conoscitrice della cultura americana, e che – scrittrice a sua volta – non solo si guardò bene dal rimaneggiare il testo, ma riuscì a renderne mirabilmente lo spirito. Del resto, una autentica amicizia legava la Pivano a Hemingway, che dopo il loro primo incontro nel 1948 le scrisse “Ti ho trovato carina e bella e con una buona testa per pensare” (un complimento non da poco).

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Un’altra famosa arrabbiatura di Hemingway fu con William Faulkner che, durante una conferenza all’Università del Mississipi, rispose ad una domanda su chi fossero i più grandi scrittori contemporanei assegnando a Hemingway il quarto posto e commentando “Non ha coraggio, non ha mai rischiato. Non ha mai usato una parola che il suo lettore dovesse andare a cercare sul vocabolario.”
Naturalmente Hemingway non fu contento del quarto posto, e ancor meno delle parole di Faulkner, alle quali replicò: “Povero Faulkner, crede davvero che le grandi emozioni derivino dai paroloni? Lui pensa che io non conosca le parole da dieci dollari. Le conosco, eccome! Ma ci sono parole più antiche, più semplici e migliori. E sono queste che uso.”

Concludo citando Saul Bellow, altro scrittore controcorrente, che scrisse: “La felicità cui Hemingway aspirava deriva spesso dalla sospensione del ricordo”. Una frase che sembra banale ma non lo è, e che forse può essere la risposta anche per tanti di noi: la pace dell’animo da trovare in una sospensione magica, cristallizzata in quel posto pulito, illuminato bene che dà il titolo a uno dei 49 racconti.

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Luisa Fezzardini, 7 luglio 2020