La discriminazione è una brutta bestia, che spesso si nasconde tra le pieghe della vita di tutti i giorni, e a volte nemmeno troppo bene.
La lettura è stata sempre una delle mie grandi passioni, e mi è sovente capitato di notare rigurgiti di razzismo, antisemitismo, discriminazioni di altro tipo in testi per altri versi più che validi – a volte anche in autentici classici della letteratura. Questi casi mi fanno pensare ad un magnifico roseto, con i fiori che ci regalano colori e profumi incantevoli, ma dove le spine sono in agguato, pronte a pungerci in malo modo.
Ho trovato in due autori di tutto rispetto delle chiare note di antisemitismo, che mi hanno fatto riflettere.
Charles Dickens
Oliver Twist è uno dei romanzi più noti del prolifico autore britannico, ed è stato oggetto di un bel numero di trasposizioni cinematografiche. I meriti, più che notevoli, di questo libro sono molti: primo fra tutti, l’aver rappresentato in modo molto vivido e realistico l’ipocrisia della società vittoriana, lo sfruttamento del lavoro minorile, le abbiette condizioni di vita degli strati più poveri e disagiati della popolazione, specie quella urbana di una Londra cresciuta troppo in fretta e malamente a seguito della rivoluzione industriale.
Inutile riepilogare qui l’intera trama, peraltro piuttosto complicata. Basti dire che a un dato momento Oliver, un ragazzino orfano, finisce per far parte di una banda di ladruncoli londinesi, tutti ragazzini come lui, che fa capo a un tal Fagin. Fagin dà cibo e alloggio (entrambi di infima qualità) ai ragazzi in cambio del frutto dei loro furti.
Fagin, che l’autore riveste di caratteri decisamente negativi, viene immediatamente connotato come ebreo e indicato come “the Jew”. Dickens dichiarò in proposito che quei tipi di criminali, ovvero i cosiddetti kidsman, uomini che addestravano bambini a furti e scippi, erano invariabilmente ebrei (“it unfortunately was true, of the time to which the story refers, that the class of criminal almost invariably was a Jew”).


A seguito di diverse critiche, Dickens in seguito smorzò i toni negativi del personaggio, anche se il suo non troppo velato antisemitismo non scomparì di certo. Anzi, un suo maldestro tentativo di rimediare in un altro romanzo sortì effetti quasi comici: ne “Il nostro comune amico” Dickens creò altri personaggi ebrei, il più rilevante dei quali è Mister Riah, un ebreo anziano che trova lavoro in fabbrica a ragazze in difficoltà. Una delle due protagoniste, Lizzie Hexam, difende il suo datore di lavoro dicendo: “Il gentiluomo certamente è un ebreo, e la signora, sua moglie, è ebrea anch’essa, ed è stato un ebreo che me li ha fatti conoscere. Ma penso che non esistano persone più gentili sulla faccia della Terra.” (“The gentleman certainly is a Jew, and the lady, his wife, is a Jewess, and I was first brought to their notice by a Jew. But I think there cannot be kinder people in the world.”)
Ovvero: sì, è vero, sono ebrei, ma nonostante ciò sono persone perbene. Un lapsus calami di prima categoria.
Georges Simenon
Simenon, il padre del commissario Maigret, era belga ma visse e lavorò in Francia e per tutta la vita fu Parigi la sua città di adozione. Il che mi fa pensare ad una osservazione fatta da un grande storico, che se prima degli anni ’30 avesse dovuto scommettere dove sarebbe sorto il nazismo, avrebbe senz’altro detto “in Francia” (non dimentichiamoci l’affair Dreyfuss e le sue note conseguenze).
Apprezzo molto Simenon, forse più i suoi romanzi “non di Maigret”, nonostante i gialli col famoso commissario siano di notevolissima concezione. Non è possibile però non notare una vena discriminatoria verso “gli altri”, ovvero i non francesi continentali. Già i còrsi (francesi, sì, ma isolani) vengono connotati in modo perlopiù negativo: invariabilmente di statura bassa, che cercano di nascondere con rialzi nei tacchi; vistosi nell’abbigliamento; e spesso sbruffoni e non troppo scrupolosi, anche quando sono poliziotti.
Quando si parla di ebrei, Simenon calca ancora di più la mano. Valga per tutti La balera da due soldi dove la vittima, Feinstein, è appunto un commerciante ebreo che approfitta ambiguamente delle infedeltà della moglie per chiedere soldi ai suoi amanti.

Quando poi le indagini di Maigret sull’omicidio lo portano a riesumare un vecchio delitto con vittima l’usuraio Ulrich (ebreo, naturalmente…) la vena antisemita dell’autore spicca ancora più chiaramente. Il commissario interroga un rigattiere ebreo, estraneo alla vicenda, ma che ha rilevato il negozio del defunto Ulrich. Ecco, testualmente, la descrizione dell’episodio: “Maigret entrò nella bottega, strapiena di vestiti vecchi e di oggetti di ogni genere che emanavano un odore nauseante. “Le serve qualcosa?” chiese l’ebreo senza troppa convinzione. In fondo al negozietto c’era una porta a vetri e al di là di questa una stanza dove una donna obesa era intenta a lavare il viso a un bambino di due o tre anni. La bacinella era sul tavolo della cucina, accanto alle tazze e alla zuccheriera.”
Sono solo poche righe, dalle quali però traspaiono chiaramente disgusto e disprezzo. Non contento, Simenon ci tiene a sottolineare come gli ebrei siano una razza a sé, e lo fa dire al rigattiere stesso. Maigret gli mostra le foto di due indiziati, al che l’uomo commenta “Non l’ho mai visto… non è un israelita”. Quando poi il commissario gli fa vedere la foto di Feinstein, il rigattiere risponde “Questo sì.” “Lo conosce?” chiese Maigret “No! Ma è della mia razza.”
Luisa Fezzardini, 13 settembre 2020
15 settembre 2020 at 9:41
Fez, ottime osservazioni. Gli stereotipi sono sempre vivaci nella mente. purtroppo il bisogno di schematizzare e modellare porta anche a questo. Comunque quello per me non era un lapsus calami…..
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15 settembre 2020 at 11:12
eh, penso anch’io di no… ma volevo dare il beneficio del dubbio…
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