Oggi, nel 1980 moriva Alfred Hitchcock. Vorrei ricordarlo, non con uno dei suoi tanti famosissimi film, ma con un episodio in cui ebbe a che fare con un orrore che fu troppo anche per lui.
Era l’estate del 1945, e Hitch aveva ricevuto l’incarico di dirigere un documentario sull’Olocausto: doveva mettere ordine fra ore e ore di immagini girate dai cameraman dell’esercito britannico e sovietico nei campi di concentramento nazisti subito dopo la fine della guerra. Ma le immagini che si trovò davanti in una saletta dei Pinewood Studios di Londra fecero inorridire anche lui, che di lì a poco sarebbe diventato il re dell’horror.
Non ce la fece: scioccato, in preda allo sgomento, per una settimana non si ripresentò negli studios. Il documentario, che secondo le intenzioni degli Alleati avrebbe dovuto vedere la luce in breve tempo per essere mostrato in Germania e convincere i tedeschi ad accettare la responsabilità collettiva per la mostruosa fabbrica della morte orchestrata da Hitler, prese più del previsto per essere portato a termine
Quando finalmente fu pronto, alla fine del ’45, la leadership politica a Washington e a Londra aveva cambiato idea, ritenendo che riproporre immediatamente ai tedeschi le loro colpe non avrebbe aiutato l’opera di ricostruzione. Così il filmato finì in un cassetto all’Imperial War Museum di Londra e lì rimase, dimenticato da tutti.
Nel 1970 fu lo stesso Hitchcock, in una delle rare testimonianze in materia, a parlarne al fondatore della Cinémathèque française Henri Langlois. «Alla fine della guerra ho realizzato un film che doveva mostrare al mondo la realtà dei campi di concentramento. Una cosa atroce. Molto più atroce del peggior film d’orrore. Nessuno ha voluto vederlo. Ma il ricordo di quel film non mi ha mai abbandonato».
La prima preoccupazione di Hitchcock di fronte a quelle immagini ancor oggi insostenibili fu quella di renderle inattaccabili. Il re del brivido sapeva infatti che davanti a orrori di quella portata la reazione più diffusa sarebbe stata l’incredulità. «Non credo che molta gente sia disposta ad accettare la realtà, a teatro come al cinema», disse sempre a Langlois. «Le cose devono solamente sembrare vere, nessuno è disposto ad affrontare la realtà troppo a lungo».
Il rischio di quelle immagini era di esser considerate trucchi, messe in scena. Per questo, come ricorda il montatore Peter Tanner, Hitch cercava inquadrature lunghe e continue, senza stacchi.
Il documentario venne scoperto per caso da un ricercatore americano negli anni ’80. Ne fu proiettata una versione incompleta e di bassa qualità al Film Festival di Berlino nel 1984 e l’anno seguente dalla rete televisiva pubblicato americana Pbs. In Italia è stato trasmesso da Rai Tre solo nel 2015.

Luisa Fezzardini, 29 aprile 2021
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